H. è una ragazza poco più giovane di me, silenziosa e tranquilla. E’ una richiedente asilo nigeriana, mandata a Foggia per risolvere alcune questioni relative alla sua domanda di asilo con la questura di Foggia, sua questura di competenza.

H. è finita a Foggia, di venerdì mattina e in questura non ha trovato risposte. Si è presentata allo sportello di Avvocato di strada proprio mentre stavo per chiudere. Ho letto le sue carte e cercato di capire la sua situazione. Ho subito chiamato l’ufficio che, da una città del Nord Italia, ha pensato bene di mandarla qui con un biglietto di sola andata e senza un soldo in tasca. Come un pacco. E qualche affinità con un pacco H. ce l’ha, ma un pacco delicato, quelli con scritto FRAGILE a caratteri cubitali: H., infatti, è al quarto mese di gravidanza. E nonostante questa sua vulnerabilità, la ricerca di un posto dove farla dormire è durata fino a sera ed ha coinvolto molte persone che si sono prodigate a contattare le poche strutture con posti letto per donne presenti in città.

La burocrazia necessaria per inserirla in un centro di accoglienza straordinaria (CAS) è stata fatta in tempi strettissimi già il lunedì successivo, grazie agli avvocati dell’associazione e ad altre associazioni con cui abbiamo lavorato in rete. La palla è passata alla Prefettura, che però sta tardando nel dare una risposta.

Nel frattempo per H. abbiamo trovato un posto temporaneo, dove le persone che la assistono, facendole compagnia e preparandole da mangiare, sono tutti volontari. E’ una soluzione totalmente precaria. Ma mostra il gran cuore di queste persone, che purtroppo deve supplire ad una totale mancanza di preparazione delle istituzioni.

Sono andato anch’io a fare compagnia ad H. per coprire un turno scoperto. Era un sabato pomeriggio e siamo andati a fare un giro per la città. H. non è una che parla molto, e neppure io. A un certo punto le chiedo: “Ma per te questi silenzi sono imbarazzanti?”. Lei mi risponde di no. “It’s cool. I don’t like people who talk, talk and talk”. E da lì in realtà abbiamo cominciato a parlare, a raccontarci delle nostre vite, delle nostre famiglie, dei nostri amori. Come due amici. I miei problemi si facevano sempre più piccoli mentre lei mi raccontava dei problemi con la sua famiglia, della decisione presa con il suo ragazzo di lasciare la Nigeria per dare un’opportunità migliore ad un figlio che doveva ancora essere concepito, ma che già era amato abbastanza da far prendere ai suoi futuri genitori una decisione così difficile e importante.
La guardo e le dico: “Capisco, rispetto ed ammiro la tua decisione”.

Il problema è che dentro di me so che la legge italiana non lo fa. Che non esiste un diritto alla ricerca della felicità, che però è ufficiosamente garantito solo a noi europei, bianchi, nati dalla parte giusta del Mediterraneo, che se domani vogliamo trasferirci in un altro Paese ci basta un biglietto aereo. Che se ci innamoriamo di qualcuno che vive in Svezia possiamo trasferirci in giornata.

Che abbiamo tutte le carte in regola per cercare di essere felici, senza che la nostra vita dipenda dalla decisione di una commissione sulla possibilità di restare o meno in un posto migliore.

E che, nonostante tutto questo, piuttosto di prenderci la responsabilità dei nostri passi falsi nella ricerca di una felicità alla nostra portata, facciamo prima a trovare un capro espiatorio. Diciamo che è colpa loro, degli immigrati. Come se il motivo per cui ci alziamo alle 6 ogni mattina per fare un lavoro che odiamo siano le 629 persone sull’Aquarius, H. e il figlio che porta in grembo, C. e i suoi problemi di salute e tutte le altre persone in cerca di una vita migliore.

Siamo noi i fautori della nostra felicità, e questo è un privilegio che non tutti hanno. E invece di esserne grati, ci scagliamo proprio su chi quel privilegio non ce l’ha.

Martin De La Cruz

Volontario Servizio Civile Avvocato di strada Onlus

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