500 euro per atteggiamenti che connotavano l’attività di meretricio. Il Comune di Padova aveva multato ingiustamente una prostituta in base ad un regolamento comunale di Polizia urbana da noi considerato illecito. Grazie ad un ricorso al Tribunale Amministrativo di Venezia i nostri avvocati volontari padovani sono riusciti a far annullare la multa. Secondo il TAR veneziano la multa era illegittima perché “sanzionare l’attività di prostituzione esula dalle competenze regolamentari del Comune e si pone in contrasto con la legislazione statale in materia”. Sempre secondo il Tar, il regolamento era illecito perché conteneva indicazioni come “pubblica decenza” o “limitazione della piena fruibilità degli spazi pubblici” considerate troppo vaghe, che “rendevano del tutto opinabile l’individuazione dei comportamenti da sanzionare” e che limitavano la libertà di tutti.

Illeciti nel Regolamento comunale di Polizia Urbana: limiti del potere sanzionatorio e principio di tassatività

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, lo scorso 8 marzo, ha emesso una significativa pronuncia in merito alla legittimità degli atti amministrativi regolamentari che intervengono in materia di prostituzione su strada.

Con la sentenza n. 273/2017, infatti, il TAR veneziano ha annullato la norma dell’art. 11 del Regolamento di Polizia Urbana del Comune di Padova, che nella nuova versione introdotta nel maggio 2015 prevedeva il divieto, in tutto il territorio comunale, di sostare in luogo pubblico o aperto al pubblico “in atteggiamento che connoti, in modo inequivocabile, l’attività di meretricio”. La norma, in particolare, vietava e sanzionava l’attività di prostituzione su strada che, “per le circostanze, le modalità e le forme con cui si svolge, offenda la pubblica decenza o limiti la piena e libera fruibilità degli spazi pubblici ovvero ne pregiudichi le condizioni di vivibilità“.

Il ricorso era stato presentato per conto di una ragazza multata di 500 euro, dopo che una prima impugnazione – proposta dall’associazione Avvocato di Strada di Padova contro una precedente ordinanza del Sindaco di Padova, di contenuto analogo – era stata dichiarata improcedibile per la sopravvenienza del regolamento comunale.

Nella sentenza, il TAR Veneto ha confermato in primo luogo la propria carenza di giurisdizione nell’esame dell’impugnazione della sanzione pecuniaria, trattandosi di materia rimessa al Giudice di Pace.

In riferimento, invece, alla censura di illegittimità del Regolamento di P.U., il giudice amministrativo ha ritenuto comunque tempestivo il ricorso, seppur proposto dopo più di un anno dall’entrata in vigore della modifica contestata: l’interesse della ricorrente all’impugnazione del regolamento di P.U., quale atto presupposto, sorge infatti, secondo il TAR, dal momento dell’applicazione della sanzione amministrativa[1].

Nel merito, il Tribunale amministrativo veneziano ha ribadito (riferendosi alla propria precedente ordinanza cautelare 22/2009) che sanzionare di per sé l’attività di prostituzione esulerebbe evidentemente dalle competenze regolamentari del Comune, come delineate dall’art. 7 del D.Lgs. 267/2000, e si porrebbe in contrasto con la legislazione statale in materia”.

Nel ricordare che l’ordinamento vigente non consente la repressione di per sé dell’esercizio dell’attività riguardante le prestazioni sessuali a pagamento ha però precisato che tale potere compete ai Comuni se l’attività di prostituzione ha rilevanza “sotto altri profili, autonomamente sanzionabili, per le modalità con cui è svolta o per la concreta lesione di interessi riconducibili alla sicurezza urbana”, quali, come nel caso di specie, la lotta al degrado urbano. La potestà sanzionatoria, in questi casi, deriva infatti agli Enti locali direttamente dal principio autonomistico di cui all’art. 5 della Costituzione.

Il TAR, tuttavia, ha accolto il ricorso condividendo la censura di violazione del principio di legalità di cui all’art. 1 della L. 689/1981, sotto il profilo della necessaria tassatività e determinatezza della fattispecie illecita, la cui valenza anche costituzionale ne avrebbe imposto il rispetto nella vicenda in commento. L’uso di locuzioni vaghe e imprecise – come “pubblica decenza” o “limitazione della piena e libera fruibilità degli spazi pubblici” o “pregiudizio per le condizioni di vivibilità” – rende del tutto opinabile l’individuazione delle particolari situazioni in presenza delle quali scatta il divieto dell’attività di prostituzione su strada, poiché di fatto rimette il relativo apprezzamento alla sensibilità del singolo agente accertatore.

Le norme amministrative, infatti, devono essere sufficientemente precise da proteggere il cittadino contro scelte discrezionali degli agenti nei casi meno palesi e più dubbi: a causa della modifica al regolamento comunale non era invece possibile per la popolazione prevedere con esattezza se il proprio comportamento rientrasse o meno nella soglia del lecito, con una conseguente illegittima compressione delle libertà di coloro che esercitano il meretricio, ma anche di tutti coloro che si muovono, e che sostano, sul territorio.

Il TAR ha poi ritenuto assorbiti gli ulteriori motivi di ricorso, che, facendo leva sull’indeterminatezza del precetto regolamentare, denunciavano lo sviamento di potere della norma impugnata, introdotta per finalità diverse dagli obiettivi dichiarati di pubblica sicurezza e tutela del decoro urbano, e la sua natura discriminatoria.

In effetti, poiché le persone che esercitano attività di meretricio in strada sono quasi esclusivamente di nazionalità straniera, secondo i ricorrenti, sanzionare tale comportamento, senza definirne chiaramente contorni e modalità e/o trascendendo gli scopi del regolamento di polizia urbana si risolve in un effetto discriminatorio nei loro confronti.

Ma ancor più gravi sono le possibili conseguenze del divieto: è ben possibile che la scelta di sanzionare amministrativamente chi eserciti attività di meretricio influisca in senso peggiorativo sulla diffusione del fenomeno. La letteratura scientifica che si è occupata di sfruttamento della prostituzione, infatti, ha ampiamente dimostrato che le misure sanzionatorie rivolte contro chi si prostituisce per strada hanno effetti controproducenti sulla lotta alla tratta di esseri umani, impedendo, fra l’altro, i contatti con le autorità di pubblica sicurezza e con gli operatori delle c.d. unità di strada che si occupano di contrastare il fenomeno assistendo i soggetti sfruttati, in sintonia con quanto previsto dal nostro ordinamento (si vedano, ad esempio, l’art. 18 del D. Lgs. 286/98, l’art. 13 della L. 228/03 ed il D.P.R. n. 237/05[2]).

Proprio nell’ottica di attenzione e vicinanza alle potenziali vittime di sfruttamento della prostituzione, si è giustificato l’intervento di Avvocato di Strada nella proposizione del ricorso, con la collaborazione dell’associazione Mimosa di Padova, associazioni queste che si occupano, rispettivamente, della tutela delle persone senza fissa dimora e svantaggiate e della tutela di soggetti dediti alla prostituzione e vittime di traffico di esseri umani.

Commento a cura di Matteo Attanasio, Lucia Carrara e Julien Mileschi, volontari di Avvocato di strada Padova

[1] Ciò sulla scia di un consolidato orientamento giurisprudenziale sul punto. Ex multis cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 3645/2016; T.A.R. Napoli, (Campania), sez. I, 644/2017; T.A.R. Aosta, (Valle d’Aosta), sez. I, 49/2016: “il termine impugnatorio inizia a decorrere allorché alla parte ricorrente siano note, con certezza, esistenza e lesività del provvedimento ampliativo ottenuto da un soggetto terzo (nonché, più in generale, l’esistenza e la lesività dell’atto impugnabile)”.

[2] G.R.E.T.A., Report concerning the implementation of the Council of Europe Convention on Action against Trafficking in Human Beings by Italy, 2014

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