Riceviamo dalla nostra volontaria Dott.ssa Simonetta Lo Re e volentieri pubblichiamo questo testo che racconta la storia di Amir, un assistito della nostra sede milanese.

Storia di Amir. Il caso è semplice: l’espulsione è illegittima

Il caso è molto semplice.

Amir (nome di fantasia) è una ragazzo egiziano, in Italia senza fissa dimora e senza lavoro. E pensare che prima un lavoro lo aveva. Avevano provato a metterlo in regola ma poi l’azienda è fallita e lui si è ritrovato senza quelle pochissime certezze che aveva.

Adesso fa solo dei saltuarissimi lavoretti come svuotare i bidoni della spazzatura nei condomini o andare nei mercati a sistemare la frutta sui banchi.
Vive ai margini di questa ricca società ma, nonostante tutto, ogni giorno va alla moschea di Via Padova a pregare. Almeno lì incontra i suoi connazionali. Almeno lì non lo scansano. Almeno lì non è invisibile.

Un giorno la polizia lo ferma. Un controllo, gli dicono. Lui i documenti non li ha ma mostra la domanda di emersione, i c.d. Decreti Flussi, della quale ancora attende una risposta. Amir cerca di spiegare la sua situazione ma parla pochissimo l’italiano e lo comprende ancora meno.
Lo portano in Questura. Lo identificano. Gli notificano un decreto di espulsione.
É disperato.

Arriva allo sportello di Avvocato di strada Milano proprio 3 giorni prima che scada il termine per impugnare il decreto del Prefetto.
All’avvocato di turno quel giorno basta una semplice occhiata a quel foglio stropicciato per rendersi conto che il decreto è illegittimo.
Ecco, giuridicamente perché.

Il decreto di espulsione viola la legge, nello specifico il decreto legislativo n.109 del 16 luglio 2012, ossia il famoso decreto flussi del quale Amir attendeva risposta.

La norma infatti prevede che ‘dalla data di entrata in vigore del presente decreto fino alla conclusione del procedimento di cui al comma 1 del presente articolo, sono sospesi i procedimenti penali e amministrativi nei confronti del datore di lavoro e del lavoratore per la violazione delle norme relative all’ingresso e al soggiorno nel territorio nazionale, con esclusione di quelle di cui all’art. 12 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286 e successive modificazioni ed integrazioni’.

Tale norma precisa inoltre che “nelle more della definizione del procedimento di cui al presente articolo, lo straniero non può essere espulso, tranne che nei casi previsti dal successivo comma 13”. Casi che, tengo a precisare, non si riscontrano nella storia di Amir.
In altre parole, dunque, il nostro amico egiziano, non avendo avuto nessun riscontro circa la conclusione della procedura di emersione dal lavoro subordinato, non può essere espulso.

E pensare che Amir la ricevuta di tale domanda la tiene sempre con sè. Anche quel giorno l’aveva mostrata al personale che l’aveva fermato.
Riassumendo, in mancanza di notificazione del provvedimento di rigetto o accoglimento della domanda di emersione dal lavoro irregolare, il relativo procedimento non si può ritenere concluso. La Suprema Corte si è pronunciata in merito facendo rilevare che la procedura di regolarizzazione ‘può ritenersi conclusa le sole volte in cui al richiedente sia comunicato con atto scritto e ad esternazione formale, l’esito negativo della stessa, con la conseguenza per la quale in difetto di tale comunicazione né la procedura può ritenersi conclusa né il Prefetto può riassumere l’esercizio del suo potere espulsivo’, onde occorre la formale comunicazione scritta dell’atto conclusivo della procedura (senza possibilità di equipollenti verbali o scritti) e ciò anche in considerazione della sostanziale natura di atto di diniego del permesso di soggiorno che assume il rifiuto di procedere alla legalizzazione del rapporto di lavoro, un atto sottoposto al sindacato del Giudice Amministrativo ai sensi dell’art. 6 co. 10 del D.L.vo 286/98 e, come tale, necessariamente fornito di sintetica motivazione in fatto e in diritto (Cass. Sez. I, 20.4.2004 n. 7472).

ANCORA.

Il decreto di espulsione notificato a Amir è ulteriormente illegittimo stavolta per un motivo molto più semplice: non è stato tradotto nella sua lingua.

Solo il verbale di notifica del suddetto provvedimento riporta il relativo testo tradotto in lingua araba. Qualcosa non quadra.
L’art. 13 comma 7 del T.U. immigrazione, conformemente a quanto previsto dall’art. 12, par. II, Direttiva 2008/115/CE, statuisce che il decreto di espulsione, il provvedimento di trattenimento presso il CIE, nonché ogni altro atto concernente l’ingresso, il soggiorno e l’espulsione dello straniero devono essere ‘comunicati all’interessato unitamente all’indicazione delle modalità di impugnazione e ad una traduzione in una lingua da lui conosciuta, ovvero, ove non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola’. Tale norma, dunque, impone alle competenti autorità amministrative la traduzione del decreto espulsivo in una lingua conosciuta dall’espellendo e a lui comprensibili, subordinando l’autorizzazione alla traduzione nelle tre lingue di maggior diffusione (c.d. lingue veicolari), ad una situazione di oggettiva impossibilità. In merito va evidenziato un indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione, secondo cui ‘ad eccezione dei casi in cui la lingua dello straniero sia rara e non facilmente conoscibile sul territorio nazionale, l’Amministrazione dell’Interno deve predisporre testi informatizzati dei provvedimenti di espulsione nelle lingue straniere più comunemente parlate dagli immigrati stranieri (arabo, cinese, albanese, russo..), in modo tale che, pur garantendosi le esigenze dell’Amministrazione di governare con celerità fenomeni complessi, si assicuri tuttavia una informazione effettiva ed immediata allo straniero a garanzia dei suoi diritti’ (Cass. Civile, sez. VI ord. 10.09.2012 – Sez. VI, 8.3.2012, n. 3678).
Ancora, la Corte di Cassazione ha recentemente affermato che “la traduzione in una lingua conosciuta dalla destinataria è requisito formale indispensabile, a pena di nullità, della comunicazione del decreto di espulsione” (Cass. Ordinanza n. 12065 del 13 luglio 2013).
Ha precisato, inoltre, la Corte che il suddetto principio è derogabile, da parte delle Autorità italiane, solo nel caso in cui sia impossibile effettuare la traduzione per indisponibilità di traduttori, alla condizione che tale impossibilità sia comunque indicata nel provvedimento.
Il decreto di espulsione, pertanto, è valido ed efficace solo se scritto nella lingua d’origine del cittadino extracomunitario e solo in caso di impossibilità – indicata nello stesso provvedimento di espulsione – deve essere tradotto in una lingua c.d. veicolare ossia inglese, francese oppure spagnolo.

La Corte, nella sopra citata ordinanza, ha ulteriormente sottolineato che neppure la dichiarazione del cittadino espulso di essere a conoscenza del contenuto del provvedimento, può essere considerata ammissione della conoscenza della lingua italiana o di una delle lingue veicolari in cui il provvedimento sia stato tradotto. Pertanto, tale dichiarazione non può sostituire la traduzione mancante.
Il provvedimento di espulsione di Amir non è stato tradotto nella lingua araba, motivando con riferimento alla indisponibilità di un interprete di tale lingua. Non è stato tradotto neppure in una delle lingue veicolari.

Eppure ci sono delle contraddizioni evidenti e palesi.
Il provvedimento di espulsione de quo è stato emesso in data 7 febbraio 2014 e, come sopra evidenziato, si legge che ‘ Il Questore di Milano [..] delega il Dirigente dell’Ufficio Immigrazione per la notifica del presente decreto, sinteticamente tradotta in lingua conosciuta dallo straniero ovvero in lingua inglese, francese o spagnola, qualora non riuscisse a procedere alla traduzione in lingua conosciuta per l’impossibilità di reperire tempestivamente un interprete’.
Nella stessa data, alle ore 8:46:26, il provvedimento è stato notificato a Amir. Nella seconda riga del verbale si legge ‘[..] nell’impossibilità di procedere alla traduzione degli atti nella sua lingua madre per assenza di interprete’.
Tutto regolare se non fosse che il verbale di notificazione riporta la traduzione del testo in lingua araba.
Ricapitolando: emissione del provvedimento e notifica sono avvenute lo stesso giorno: 7 febbraio 2014. Il primo non è stato tradotto, neppure sinteticamente, né nella lingua di origine del destinatario del provvedimento né in una delle lingue veicolari. Il verbale di notifica, invece, pur evidenziando l’impossibilità di reperire un interprete, riporta il corrispondente testo in lingua araba.

Ed il diritto di difesa?
Un provvedimento particolarmente invasivo ed ablativo del diritto della persona a permanere sul territorio dello Stato, non può assolutamente tollerare una conoscenza parziale, se non, addirittura, una non-conoscenza da parte del destinatario.
NON È FINITA QUI.

Il decreto di espulsione de quo è da ritenersi illegittimo in quanto emesso dal Vice Prefetto Aggiunto, senza l’indicazione della delega espressa.

Il decreto è manifestamente nullo per assoluta carenza di potere del funzionario che lo ha emanato in quanto non vi è alcun riferimento circa l’eventuale delega operata dal Prefetto a favore del soggetto firmatario.

Al riguardo la Corte di Cassazione ha affermato che ‘perchè l’ordinanza prefettizia possa essere sottoscritta da un vice prefetto non vicario occorre la delega espressa del prefetto’ (Cass. Civile. Sez. II 01 marzo 2007 n. 4861). Diverso è il caso in cui sia il vice prefetto vicario ad emettere il provvedimento. In tal caso, infatti, ‘la delega non è necessaria in quanto il vice prefetto vicario è legittimato a sostituire il prefetto in tutte le sue attribuzioni ‘ (Cass. Civ. Sez. I, n. 9094/2003).

Preme, a chi scrive, soffermarsi seppur rapidamente sui presupposti che, nel merito, hanno fondato il provvedimento di espulsione in oggetto.
Si parla, in primo luogo, di una mancata integrazione sociale che, tuttavia, non è documentata o provata. Su che base si può dire che Amir non è socialmente integrato? Essere senza fissa dimora non significa non essere integrato nella società.

Si legge ancora – e questa cosa mi ha strappato un sorriso – che Amir ‘non manifesta concreto interesse a fare rientro nel suo Paese d’origine’ .

Amir è un cittadino egiziano.

Tralasciando il fatto che l’attuale situazione in Egitto non sia tra le più felici.

Tralasciando – volutamente – che la stessa Farnesina sconsiglia di recarsi in Egitto “in considerazione del progressivo deterioramento della situazione di sicurezza” affermando che “la perdurante e difficile fase di transizione nel paese nordafricano conferma la possibilità di azioni ostili di stampo terroristico”. Mi chiedo, lecitamente, come una motivazione del genere possa essere posta a fondamento di un provvedimento di espulsione. Tutte la ragioni esposte hanno trovato accoglimento da parte del Giudice di Pace. Nel giro di pochissime udienze, il decreto è stato annullato. Amir può continuare a sperare in un futuro migliore.

Dott.ssa Simonetta Lo Re
Volontaria Avvocato di strada Milano

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