Discriminazioni
Il termine “discriminazione” fu utilizzato per la prima volta in lingua inglese, mutuandolo dal latino “discriminat” che significa “distinto tra”.
La discriminazione, secondo una definizione tratta dal dizionario britannico dell’Università di Cambridge, è, infatti, il trattamento, considerazione e/o distinzione non paritari attuati nei confronti di un individuo o di una classe di individui sulla base dell’appartenenza di questi ultimi ad un particolare gruppo, classe o categoria sociale. Si tratta di una differenza di trattamento fra soggetti (persone fisiche e/o giuridiche) non giustificata da ragioni oggettive e ragionevoli che mira a provocare l’esclusione sociale del soggetto vittima del comportamento discriminatorio.
Sul tema del contrasto alla discriminazione, il panorama delle fonti comunitarie ed internazionali è vasto. In particolare:
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Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948;
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Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di Discriminazione (New York, 1965- Rat. 1976);
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Art. 14 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), rubricato “Divieto di discriminazione”: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.
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Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione verso le donne (1980- Rat. 1985);
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Art. 13 Trattato istitutivo della Comunità Europea: attribuisce il potere al Consiglio Europeo di adottare provvedimenti diretti contro le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali;
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Direttiva 2000/43/CE sulla parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (Rat. 2003);
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Direttiva 2000/78/CE che istituisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (D.Lgs. n. 215/2003);
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Carta dei diritti fondamentali dell’UE, o “Carta di Nizza” – Art. 21: “È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale. Le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”.
Rispetto al panorama normativo, nazionale ed internazionale, possiamo quindi affermare che le norme si riferiscono, in particolare, ad alcuni fattori discriminanti, ed in particolare ricordiamo le discriminazioni su base religiosa (quindi sulla fede), le convinzioni personali (ivi incluse quelle politiche), handicap (inabilità o incapacità fisiche e/o psichiche), età (soprattutto giovani ed anziani), orientamento sessuale (in primis persone LGBT), razza ed etnia (nel senso di discriminazione razziale o su base culturale) e condizioni patrimoniali (in particolare verso poveri e svantaggiati).
Nell’ordinamento italiano non esiste una definizione generale del concetto di discriminazione, né è presente un vero e proprio divieto di discriminare.
La nostra Costituzione pone all’art. 3, comma 1 il principio di uguaglianza formale, che è di fatto il corollario immediato della non discriminazione: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, razza, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”, mentre al comma 2 si evidenzia, invece, che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” Con l’entrata in vigore della Costituzione in Italia si posero le prime basi per la costruzione di un vero e proprio apparato di principi e di norme a contrasto della discriminazione.
Una definizione efficace di discriminazione è contenuta all’interno del cd. Testo Unico sull’Immigrazione, D.Lgs. n. 286/1998 che, in primo luogo, ha avuto il merito di estendere allo straniero regolarmente soggiornante sul territorio italiano le tutele previste in tema di accesso ai diritti costituzionali e civili. In secondo luogo, il legislatore ha introdotto una specifica tutela antidiscriminatoria con riferimento alle condotte xenofobe e razziste, l’azione antidiscriminatoria di cui all’art. 44, oggi regolata dagli artt. 702 bis e ss. del codice di procedura civile.
Agli artt. 43 e 44 del Testo Unico sopracitato, il legislatore ha poi cristallizzato il concetto di discriminazione razziale definendolo il “trattamento che direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o compromettere il riconoscimento, il godimento, o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.
Da questa definizione possono trarsi almeno due considerazioni fondamentali sul lavoro del legislatore: in primo luogo, che si è inteso sanzionare qualsiasi comportamento che, a prescindere dalla volontà del soggetto agente, risulti oggettivamente discriminatorio.
In secondo luogo, che traendo spunto dalle fonti sovranazionali, si è voluto adottare la tradizionale distinzione fra discriminazione diretta e discriminazione indiretta (si veda il prossimo paragrafo).
Al secondo comma dell’art. 43 il legislatore ha, peraltro, elencato una serie di condotte che, in ogni caso, costituiscono comportamento discriminatorio. Ad esempio è senza dubbio discriminatorio per esplicita indicazione legislativa:
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Il pubblico funzionario o incaricato di pubblico servizio che compie o omette atti nei riguardi di un cittadino straniero;
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Il fornitore di beni e servizi al pubblico che impone condizioni più sfavorevoli ad uno straniero.
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Chiunque impone illegittimamente condizioni più sfavorevoli o rifiuta l’accesso di un soggetto straniero all’occupazione, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali.
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Chi impedisce mediante azioni ed omissioni, l’esercizio di un’attività economica legittimamente intrapresa da uno straniero.
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Il datore di lavoro o uno dei suoi preposti che compia atti ad effetti pregiudizievoli per uno o più lavoratori stranieri in modo da discriminarli, anche indirettamente.
A tal proposito, infatti, la giurisprudenza della Corte di Cassazione paragona la discriminazione ad un disconoscimento di uguaglianza che genera l’affermazione di inferiorità sociale o giuridica altrui, a maggior ragione se a mezzo di condotta costitutiva di reato (Cass. Civ., n. 9381/2006).
Discriminazione diretta e indiretta
Prima di trattare sulle singole categorie di discriminazione, è opportuno soffermarsi preliminarmente sulla differenza fra discriminazione diretta e discriminazione indiretta. Tale distinzione è stata adottata nel Testo Unico sull’Immigrazione del 1998 e si trova, altresì, nella direttiva europea 2000/43/43, il cui oggetto riguardava la parità fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.
Con il D.Lgs n. 215/2003, poi, il legislatore italiano afferma che si ha discriminazione diretta quando “per la razza o l’origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in situazione analoga”.
La discriminazione indiretta si considera, invece, posta in essere quando una disposizione, un criterio, o una prassi (atti, patti, comportamenti), pur apparentemente neutri, pongano una persona di una determinata razza o origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone (art. 2 Dir. 2000/43/CE).
Per distinguere le due tipologie di condotta discriminatoria si può fare l’esempio, nel primo caso, di un provvedimento amministrativo, un’ordinanza del Sindaco che preveda per determinate categorie di persone (africani, gitani, sudamericani) più dettagliati ed invasivi controlli sanitari per dimorare sul suolo cittadino.
Per quanto riguarda, invece, la discriminazione indiretta pensiamo a un provvedimento dell’amministrazione rivolto agli abitanti di un quartiere in prevalenza abitato da popolazione musulmana, che conceda ad una serie di commercianti di tenere un mercato il venerdì pomeriggio, dinanzi all’ingresso della moschea. È chiaro che questo provvedimento, apparentemente neutro e non discriminatorio, in realtà ostacolerebbe il regolare svolgimento delle funzioni religiose da parte della maggioranza degli abitanti del quartiere e, dunque, risulterebbe, anche se indirettamente, discriminatorio.
Per capire se un atteggiamento o una scelta siano indirettamente discriminatori, si dovrà considerare il risultato che questi producono in concreto, e non l’intenzionalità o l’atteggiamento psicologico del soggetto discriminante (che può essere convinto di agire legittimamente, ma il cui comportamento potrà risultare comunque discriminatorio verso una certa categoria di persone).
Discriminazione razziale, etnica. Tutele dell’ordinamento italiano
La definizione di discriminazione razziale è contenuta all’art. 43 dal Testo Unico sull’Immigrazione.
Prima dell’approvazione del Testo Unico avvenuta nel 1998, in Italia erano già previste delle tutele specifiche avverso la discriminazione razziale ed etnica:
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A livello costituzionale, si richiama il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e l’art. 10 Cost. con particolare riguardo alla condizione dello straniero.
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A livello internazionale, la legge di ratifica della Convenzione di New York del 1965 sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione, all’art. 3, puniva con la reclusione da uno a quattro anni: “chi diffondeva in qualsiasi modo idee fondate su superiorità o odio razziale e chi incitasse alla discriminazione o a commettere atti di violenza o di provocazione nei confronti di soggetti appartenenti ad un gruppo, nazionale, etnico o razziale”. Gli stati firmatari della Convenzione si impegnarono, in particolare, a punire ogni forma di diffusione di idee fondate sull’odio razziale, oltre ad ogni forma di incitamento discriminatorio ed ogni atto di violenza o induzione a commettere tali comportamenti.
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Nel 1993 la legge cd. Mancino (legge n.205/1993) apportò modifiche ed integrazioni alla legge di ratifica della Convenzione di New York. L’art. 3, comma 1 del D.L. 122/1993 ha introdotto una determinata circostanza aggravante per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo, che siano stati “commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità, la pena è aumentata fino alla metà.”
Il legislatore mirò inoltre a punire, da un lato, chiunque, in pubbliche riunioni, avesse compiuto manifestazioni esteriori od avesse ostentato, durante le stesse, o al di fuori, emblemi e simboli propri o usuali di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’art. 3 della legge di ratifica. Allo stesso modo sarebbe stato punito, chiunque, con qualsiasi forma ed in qualsiasi modalità, avesse incitato alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici o religiosi. D’altro lato, chiunque avesse partecipato a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o avesse assistito alla loro attività, sarebbe stato punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni.
La stessa Legge Mancino riservò, infine, una pena più grave (da uno a sei anni) per coloro che avessero promosso o diretto tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi.
Con la sentenza n. 44295/2005 la Corte di Cassazione ha stabilito che non è sufficiente che l’odio etnico, nazionale, razziale o religiosa abbia ispirato la condotta di delitto, ma occorre che essa, per le sue intrinseche caratteristiche, abbia cercato di suscitare verso altri lo stesso sentimento o comunque abbia dato luogo in concreto a comportamenti discriminatori per le medesime ragioni di cui sopra.
Successivamente, il legislatore apportò nuove modifiche con la legge n. 85/2006, sostituendo il termine “incitamento” con quello di “istigazione” e alleggerendo sensibilmente il trattamento sanzionatorio. La circostanza citata viene sottratta al giudizio di bilanciamento di cui all’art. 98 c.p. e, pertanto, quando questa è integrata, comporta che le circostanze concorrenti ed attenuanti non possano essere ritenute equivalenti o prevalenti. -
A livello civilistico, una tutela specifica era già rinvenibile nello Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300/1970) all’art. 15 che prevede il divieto di licenziamento discriminatorio.
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Con l’introduzione della cd. Azione antidiscriminatoria di cui all’art. 44 del T.U. sull’Immigrazione, il Legislatore del 1998, infine, istituì un rimedio civilistico da affiancare alla tutela penalistica e lavorativa avverso la discriminazione a sfondo razziale.
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Recentemente, il 6 aprile 2018, il legislatore penale ha introdotto la fattispecie autonoma di reato di cui all’art. 604 bis c.p. che, con riferimento alla discriminazione razziale, etnica e religiosa, stabilisce che: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito: a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.”
All’art. 604 ter è introdotta una nuova circostanza aggravante a tenore della quale: “Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale.”
Ad esempio integra il reato di diffamazione aggravato dalla discriminazione razziale il parlamentare che renda dichiarazioni ritenute volgari ed irridenti nei confronti di esponenti dell’etnia rom nel corso di un’intervista radiofonica, caso eccezionale in cui non può essere invocata la libertà di espressione, in quanto intrinsecamente violenta e discriminatoria (Cass. Penale, sent. del 22 luglio 2019 n. 32862).
Discriminazione sul luogo di lavoro – il caso del mobbing e il licenziamento cd. discriminatorio
Uno dei luoghi dove più spesso si verificano discriminazioni (dirette e soprattutto indirette) sono i posti di lavoro; queste possono manifestarsi tramite condotte cd. di mobbing o financo col licenziamento su base discriminatoria, così come descritto dall’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori.
Il mobbing
Il termine mobbing viene coniato agli inizi degli anni settanta da Konrad Lorenz, un etologo, per definire un comportamento aggressivo tra individui della stessa specie, atto ad isolare uno dei membri del gruppo.
Il termine deriva da “mob”, che a sua volta ha lontane radici nel latino “mobile vulnus”, termine con cui si usava descrivere in modo spregiativo la plebe.
La Corte di Cassazione Civile definisce il mobbing come : “Una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psichico e del complesso della sua personalità” (cfr. Cass. Civ., n. 3875/2009).
Va precisato, innanzitutto, che avverso la condotta di mobbing, l’ordinamento italiano prevede solamente i tradizionali rimedi civilistici previsti agli artt. 2043 c.c. e 2087 c.c. con domanda di condanna al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale (biologico, morale, esistenziale).
Chi agisce dinanzi a un Tribunale civile allo scopo di vedere risarcito il danno derivante da condotta di mobbing, deve provare l’esistenza dei comportamenti pregiudizievoli, la reiterazione della condotta, il nesso causale fra condotta e danno. Come ha di nuovo e recentemente affermato la Cassazione, devono ricorrere sempre due fattori concomitanti per potersi parlare di mobbing: l’elemento oggettivo della pluralità di comportamenti vessatori e l’elemento soggettivo dell’intendimento persecutorio (cfr. Cass. Pen., sez. V, n. 31273/2020). L’onere della prova della molestia subita è del soggetto leso, mentre il datore ha l’onere più generale di dimostrare di aver fornito dei luoghi di lavoro adeguati (infatti “grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di protezione dell’integrità psico-fisico del lavoratore, sul quale incombe il diverso onere di provare sia l’eventus damni, sia il nesso di causalità fra questo e la prestazione lavorativa”., Cass. Civ., Sez. Lavoro, n. 13693/2015, mentre, sulla sostenibilità del luogo di lavoro che deve fornire il datore di lavoro si veda la Cass. Civ. sent. n. 27913/2020).
Nello specifico, assume rilievo ogni forma di violenza perpetrata da una o più persone verso un soggetto più debole: ad esempio attraverso ostracismo, umiliazioni pubbliche e diffusione di notizie non veritiere.
Non esiste, invece, una fattispecie penalistica ad hoc, nemmeno nella forma di circostanza aggravante che punisca il mobbing sia esso verticale ovvero orizzontale. Ben può accadere, invece, che l’atteggiamento vessatorio sul luogo di lavoro possa causare al lavoratore una lesione nel corpo o nella mente (lieve, grave o gravissima che sia), punibile separatamente, a norma dell’art. 590 c.p. (lesioni personali colpose) o che ancora la condotta configuri altri reati quali:
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abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), se avviene con impiego all’interno della Pubblica Amministrazione.
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maltrattamenti (art. 572 c.p.) di persona sotto la sua autorità e per via dell’esercizio di una professione o arte.
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ingiuria (art. 594 c.p.), definita come offesa all’onore o al decoro di una persona presente in quel momento, anche via telefono o per iscritto;
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diffamazione (art. 595 c.p.), quando si va a ledere la reputazione del soggetto;
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violenza sessuale (art. 609-bis c.p e seguenti), quando la molestia incide sulla sfera sessuale della persona offesa;
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violenza privata (art. 610 c.p.), quando il mobber con violenza o minaccia, costringe la vittima a fare o subire o omettere qualche cosa contro la sua volontà;
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molestia o disturbo alle persone (660 c.p.) quando il soggetto che fa mobbing, in luogo pubblico o aperto al pubblico, o anche col telefono, rechi alla vittima molestia o disturbo.
Altre tutele sono previste nello Statuto dei lavoratori, laddove questo prescrive particolari oneri a carico del datore di lavoro per le contestazioni disciplinari nei confronti del lavoratore e, laddove sono puniti determinati comportamenti discriminatori del datore di lavoro.
Il licenziamento discriminatorio
Un caso specifico è quello del licenziamento cd. discriminatorio di cui all’art. 15, letto in combinato disposto con l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (nella parte non modificata dalla recente riforma attuata dal cd. Jobs Act).
Si verifica quando la scelta del lavoratore da licenziare sia dettata da una ingiustificata differenza di trattamento, che si fonda proprio su una delle fattispecie discriminatorie contemplate dalla legge ed è quindi fondato sulla volontà di escludere dalla compagine sociale un soggetto per il solo fatto di una sua caratteristica personale (recentemente, Trib. Milano sent. dell’1.03.2019 est. Dr. Lombardi). La discriminazione può rientrare in uno qualsiasi dei motivi indicati dal legislatore, anche comunitario, a cui si aggiunge espressamente il licenziamento della donna a causa della gravidanza (art. 3 l. 108/1990).
In caso di accertato licenziamento discriminatorio il rimedio è, ai sensi dell’art. 18, la reintegrazione “piena” del lavoratore: il giudice, oltre a dichiarare nullo il licenziamento, ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore, che si calcola sommando le retribuzioni non versate, dalla data del licenziamento fino al momento dell’avvenuta reintegrazione. Si tratta di un’indennità (somma in denaro) che va commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento alla successiva reintegrazione, in una misura che non può mai essere inferiore a cinque mensilità.
Il lavoratore, rinunciando alla reintegrazione nel posto di lavoro, ha altresì la possibilità di richiedere la risoluzione del rapporto di lavoro e un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Discriminazione di genere
Se la ragione alla base della condotta discriminatoria si fonda sulla differenza di sesso, si ha una discriminazione cd. di genere. La discriminazione di genere è definita dalla Direttiva 2002/73/CE sull’attuazione del principio di parità di trattamento per l’accesso al lavoro tra uomini e donne ed è stata recepita dal D.Lgs. n.145/2005.
Già la Carta di Nizza del 2000 prevedeva all’art. 23 un generico principio di parità di trattamento fra donne e uomini che deve essere assicurato in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione, con la precisazione che suddetto principio non deve ostare al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato.
In attuazione dei principi europei di parità di trattamento uomo e donna, il legislatore italiano ha promulgato il cd. Codice delle Pari Opportunità (D.Lgs. n. 198/2006), istituendo presso il Dipartimento delle Pari Opportunità con sede in Roma, un’apposita Autorità, o Commissione vigilante l’adempimento delle prescrizioni legislative in materia di divieto di discriminazione in base al genere.
Tale Commissione si occupa in particolare di:
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promuovere iniziative finalizzate alla partecipazione della donna alla vita politica, economica e sociale;
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cercare di attuare modificazione alla legge esistente per permettere una completa parificazione tra uomo e donna;
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promuove studi e ricerche sull’effettiva applicazione delle politiche sulla parità di genere;
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segnalare al Presidente del Consiglio dei ministri iniziative, al fine di attuare una completa parificazione anche nell’ambito della pubblica amministrazione.
Non è oggi infrequente che altri organismi pubblici, come l’Università, abbiano adottato al loro interno appositi Comitati per le pari opportunità, o si siano dati regolamenti e statuti interni volti a tutelare la rappresentanza di ambosessi. Un ruolo importante viene svolto dalle consigliere di parità regionali e nazionali, le quali hanno competenza a proporre ricorsi collettivi avverso comportamenti discriminatori basati sul sesso.
Un’importante novità apportata dal Codice delle Pari opportunità è rintracciabile nel comma 2 bis dell’art. 25, introdotto con le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 5/2010 che tratta della discriminazione durante la gravidanza, o in ragione di maternità e paternità : “Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”.
Un’altra importante novità introdotta dal successivo art. 26 riguarda i comportamenti discriminatori sul luogo di lavoro posti in essere mediante molestie, o molestie sessuali – peraltro esprimibili sia verbalmente sia fisicamente – per ragioni connesse al sesso, che abbiano lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Con questa previsione sembra che il Legislatore abbia istituito una sorta di condotta atipica di mobbing lavorativo, fondato sui comportamenti a sfondo sessuale.
La discriminazione di genere può essere indirettamente condannata anche come violazione del diritto alla vita privata e all’integrità personale (articolo 8 della Convenzione EDU): la Corte europea dei diritti ha condannato l’Italia lo scorso 27 maggio 2021 (J.L. c. Italia, ricorso n. 5671/16). La causa riguardava un procedimento penale nei confronti di sette uomini accusati di violenza sessuale di gruppo e poi assolti dai giudici italiani; la Corte europea ha rilevato che nel procedimento penale non sono stati adeguatamente tutelati i diritti della presunta vittima di violenza, esposta a vittimizzazione secondaria dalla stessa Corte d’appello di Firenze che, nel pronunciare sentenza di assoluzione, ha formulato osservazioni sulla bisessualità della presunta vittima e ricordato i rapporti sessuali affettivi e occasionali del ricorrente prima dei fatti. Il linguaggio e gli argomenti esposti dai giudici italiani configurano per la corte UE pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana, perpetrati persino a livello giurisdizionale, e che rischiano di ostacolare la protezione efficace dei diritti delle vittime della violenza di genere, nonostante un quadro legislativo soddisfacente. La Corte è convinta che l’azione penale e le misure sanzionatorie svolgano un ruolo centrale nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta contro le disuguaglianze tra generi e ritiene pertanto essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni giudiziarie e di esporre le donne alla vittimizzazione secondaria utilizzando un linguaggio tale da scoraggiare la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario.
Come mezzo di contrasto attivo alla misoginia, il ddl Zan vorrebbe introdurre iniziative di sensibilizzazione e un’aggravante penale specifica per tutti quei reati commessi nei confronti delle donne in quanto tali, cioè quelli spinti dall’idea che gli uomini di sesso maschile siano superiori e abbiano il diritto di avere il controllo sulla vita delle donne, viste come sesso debole e non in grado di autodeterminarsi. Recentemente il nostro ordinamento (legge 119/2013) ha aggravato la pena per il reato di maltrattamenti familiari (art. 572 c.p.) nel caso in cui avvengano verso in presenza di minori o verso donne in gravidanza, oltre ad inserire il cosiddetto stalking, ovvero gli atti persecutori (art. 612 bis c.p.).
È punito più aspramente anche il reato di stalking, se commesso da persona che è o è stata legata da relazione affettiva con la vittima o se gli atti persecutori siano posti in essere con strumenti informatici e telematici.Per stalking si intende quella condotta penalmente rilevante che consiste in una serie di atti persecutori posti in essere da un soggetto nei confronti di un altro, tali da generare in quest’ultimo un costante stato di ansia e agitazione che compromette seriamente le abitudini di vita quotidiana.
Discriminazione in base all’orientamento sessuale ed identità di genere.
Quando si parla di omofobia si intende ogni comportamento discriminatorio rivolto a persone omosessuali; per essere precisi, se il fenomeno colpisce persone lesbiche e non gay il termine più preciso diventa lesbofobia, anche se a volte si parla di omofobia in generale; a queste va aggiunta la bifobia, nel caso l’avversione sia verso le persone bisessuali (cioè attratte da entrambi i sessi).
All’interno delle discriminazioni per “tendenza sessuale” (termine generico e volutamente atecnico che vuole includere orientamenti sessuali ed identità di genere di ogni tipo) va considerata poi la transfobia, la forma di discriminazione e disprezzo verso le persone transessuali.
In Italia manca una disciplina che condanni specificamente questo tipo di discriminazioni in sé considerate. In passato c’è stata una legge delega del Parlamento molto generica e inattuata dal Governo, così come si sono susseguite negli ultimi 30 anni diverse proposte di legge parlamentare, sistematicamente affossate o insabbiate. L’ultima in ordine di tempo è il DDL Zan, approvato dalla Camera a fine 2020 e in attesa di discussione in Senato. A livello europeo, dal Trattato di Amsterdam (1999) in poi l’Unione Europea (in realtà il Consiglio all’unanimità, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo) può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate anche sulle tendenze sessuali. Il Parlamento europeo nel mentre si è espresso in diverse occasioni (in particolare con le Risoluzioni 8 e 10 del 26 aprile 2007), contro una tal forma di discriminazione invitando espressamente gli Stati Membri ad agire: “Il Parlamento europeo […] ribadisce il suo invito a tutti gli Stati membri a proporre leggi che superino le discriminazioni subite da coppie dello stesso sesso e chiede alla Commissione di presentare proposte per garantire che il principio del riconoscimento reciproco sia applicato anche in questo settore al fine di garantire la libertà di circolazione per tutte le persone nell’Unione europea senza discriminazioni”; e ancora: “Il Parlamento europeo […] condanna i commenti discriminatori formulati da dirigenti politici e religiosi nei confronti degli omosessuali, in quanto alimentano l’odio e la violenza, anche se ritirati in un secondo tempo, e chiede alle gerarchie delle rispettive organizzazioni di condannarli”.
Se è vero che l’ordinamento italiano non prevede ancora una forma di tutela specifica avverso la discriminazione omofobica, è altrettanto vero che dalla lettura dell’art. 3 della Costituzione, della Legge Mancino e delle altre leggi in materia di discriminazione, si può dedurre un generico divieto di discriminazione fondato sulle condizioni personali e, dunque, per l’effetto, sulle tendenze sessuali individuali. Le altre condotte, ad oggi, rimangono censurabili se rientrano nelle specifiche fattispecie di reato o illecito civilistico (reati di ingiuria, diffamazione, reati di lesione dell’integrità fisica come le lesioni personali, risarcimenti per danno di immagine…); insomma, si guarda soltanto al dato oggettivo della lesione o del danno provocato, senza considerare il movente o la causa che ha spinto a crearlo con un discredito particolare e differenziato.
L’unica forma di tutela specifica dell’ordinamento avverso la discriminazione di carattere omofobico è rintracciabile nello Statuto dei lavoratori che sanziona il licenziamento discriminatorio (il D.Lgs n. 151/2015 cd. Jobs Act ha mantenuto tale previsione) fondato sull’orientamento sessuale con la reintegrazione del lavoratore e il pagamento di tutte le retribuzioni maturate durante il periodo di licenziamento. Le tutele dello Statuto dei lavoratori non possono, però, a rigore, essere applicate ai lavoratori/lavoratrici trangender in quanto tali, senza causare una grave confusione fra il concetto di orientamento sessuale e quello di identità di genere.
Facciamo un po’ di chiarezza. Ogni persona (eterosessuale o omosessuale che sia) ha una identità di genere, cioè una percezione del proprio genere (maschile, femminile o per alcuni nessuno dei due o entrambi – in questi casi si parla di gender fluid o queer). Se il genere a cui si sente di appartenere è lo stesso del sesso biologico (cioè quello che si ha alla nascita in base ai caratteri sessuali), si parla di persone cisgender o cissessuali: sono nato uomo e mi sento uomo, o sono nata donna e mi sento donna. Ci sono però casi in cui l’identità di genere non corrisponde al sesso che si ha alla nascita: sono queste le persone transgender. Con tale termine indichiamo in generale chi non si sente di appartenere al sesso genetico.
Le persone transgender non sono malate: si parla di disforia di genere (questa sì una patologia) solo quando alla “forte e persistente identificazione col sesso opposto” si affianchi “ansia, depressione, irritabilità e spesso desiderio di vivere come genere diverso da quello associato al sesso assegnato alla nascita”; non è quindi la transessualità il problema, ma il disturbo psichico che può causare.
Ci sono quindi alcuni transgender che decidono di intraprendere un percorso medico (chirurgico, ormonale e psicologico) per poter adattare il proprio corpo al genere a cui si sente di appartenere.
Si può in ogni caso ottenere il cambiamento dei propri dati anagrafici: l’art. 1 la legge 164/82 dispone che la rettificazione “si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”. Non serve per forza ricorrere agli interventi chirurgici, che per molti possono essere percepiti come una menomazione del proprio corpo o pratica eccessivamente invasiva: così si è espressa la Corte di Cassazione prima (Sez. I Civ., sent. n. 15138/2015) la Corte Costituzionale poi (sent. n° 180/2017), per le quali è sufficiente un “accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere”, a prescindere dall’essersi sottoposti ad interventi di “normoconformazione” (a carattere “demolitorio” o “ricostruttivo”). Inoltre, una volta cambiato sesso all’anagrafe si è liberi di scegliere il nome che si preferisce, e non solo la trasformazione al maschile o femminile del precedente nome (Cass. Civ. sent. n. 3877/2020).
La categoria delle persone transgender resta, pertanto, ancora adesso l’unica categoria esclusa dalle tutele dello Statuto dei lavoratori. Un licenziamento di una persona trans senza motivazione o con una motivazione pretestuosa sarà quindi impugnabile solamente come licenziamento illegittimo per carenza di motivazione (senza giusta causa), per il quale la reintegra richiede che sia direttamente provata, in corso di causa, l’insussistenza materiale del fatto imputato al lavoratore e posto alla base del licenziamento.
Discriminazione per motivi religiosi
Per “discriminazione per motivi religiosi” s’intende un comportamento teso ad umiliare, stigmatizzare, ostracizzare, limitare e/o condannare la singola convinzione religiosa, ovvero l’appartenenza del singolo ad una religione, ovvero l’atto di professare in senso stretto una fede. Nel nostro Paese già a livello Costituzionale si tutela la libertà religiosa come diritto di ciascuno di professare una fede ed esercitarne il culto, in pubblico o in privato, purché non contrari al buon costume (art. 19 Cost.).
Nel nostro ordinamento assume particolare rilievo il disposto dell’art. 4 della Legge n. 604/1966, che ha introdotto la prima forma di tutela nei confronti del lavoratore avverso il licenziamento per motivi di appartenenza ad un credo politico e/o ad una religione. In caso di licenziamento o di diverso inquadramento di un lavoratore a causa della fede da lui professata, la sanzione prevista era la nullità a cui seguiva la sanzione della reintegrazione del lavoratore.
Tale disposto è stato inglobato, successivamente, all’interno dell’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori che prevede che si ha discriminazione religiosa, quando sono presenti due elementi: da una parte, l’elemento materiale della condotta discriminatoria, dall’altra l’elemento psicologico inteso come volontà del datore di lavoro di discriminare un lavoratore perché appartenente ad una confessione.
In ambito lavorativo, possono verificarsi comportamenti discriminatori nei criteri di assunzione del lavoratore se vengono utilizzati di criteri selettivi che determino distinzioni o esclusioni basate sulla religione (discriminazione diretta), o anche se i criteri siano apparentemente neutri, ma concretamente svantaggino una persona appartenente ad una fede religiosa (discriminazione indiretta). Per rimediare alla condotta discriminatoria sul luogo di lavoro per motivi di religione, il lavoratore ha facoltà di accedere al tentativo di conciliazione presso la commissione istituita presso la Direzione provinciale del lavoro (ex art. 410 c.p.c.).
Vi sono altri ambiti, oltre a quello lavorativo, in cui è frequente che si verifichi una discriminazione a sfondo religioso. Ad esempio, nella scuola, un tipico caso di discriminazione religiosa è quello degli insegnanti di una scuola elementare che costringano una bambina a frequentare l’ora di religione, qualora i genitori si siano avvalsi della facoltà di non usufruirne (ordinanza Tribunale di Padova del 04/08/2010 con la quale il giudice stabiliva che ci fosse stato comportamento discriminatorio, intimando di farne cessare la condotta).
A livello internazionale, sono celebri il caso francese del cd. divieto per le donne musulmane di portare il velo a scuola (all’interno di una legislazione che tutela la libertà di culto ma limita al minimo la sua pubblica ostentazione, sia di fede cattolica o di altre fedi), ovvero il caso canadese dell’allontanamento dello studente ortodosso SICH da scuola, perché portava in classe il kirpan, il coltello cerimoniale religioso (v. Caso “Multani”, Corte Suprema del Canada).
Discriminazione verso disabili, l’abilismo
In generale
Fonti internazionali: Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD) siglata a New York il 13 dicembre 2006.
La Convenzione ONU è stata ratificata dal Parlamento italiano col Protocollo addizionale del 30 marzo 2007 e, successivamente, con la legge n. 18 del 3 marzo 2009; è stata ratificata dall’Unione Europea nel 2011, entrando così nel diritto comunitario.
L’ art. 2 della Convenzione per “discriminazione fondata sulla disabilità” si intende «qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo.
Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un ‘accomodamento ragionevole» inteso come «ogni modifica e adattamento necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali».
L’art. 4 della Convenzione, relativo agli “Obblighi generali”, stabilisce che gli Stati Parti si impegnano a garantire e promuovere la piena realizzazione di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali per tutte le persone con disabilità senza discriminazioni di alcun tipo sulla base della disabilità. Più precisamente, gli Stati Parti si impegnano ad adottare tutte le misure, incluse quelle legislative, idonee a modificare o ad abrogare qualsiasi legge, regolamento, consuetudine e pratica vigente che costituisca una discriminazione nei confronti di persone con disabilità e ad adottare tutte le misure adeguate ad eliminare la discriminazione sulla base della disabilità da parte di qualsiasi persona, organizzazione o impresa privata.
Fonti Europee: La Strategia post-2020
La Strategia post-2020 è stata approvata dal Parlamento Europeo il 18 giugno 2020 per garantire alle persone con disabilità la piena partecipazione e inclusione e per contrastare la discriminazione di genere contro donne e ragazze con disabilità all’interno dell’Unione Europea.
La Strategia post-2020 è stata approvata anche dalla Commissione Europea il 3 marzo 2021.
Il terzo pilastro della cd. ‘Strategia post-2020 dal titolo “Non discriminazione e pari opportunità”, prevede che, sulla base dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la Strategia mira a proteggere le persone con disabilità da qualsiasi forma di discriminazione e violenza e a garantire loro pari opportunità mediante l’accesso a tutti i servizi sanitari, al Web, alla giustizia, all’istruzione, alla cultura, allo sport, al turismo e le pari opportunità in tutti questi ambiti.
Fonti nazionali
Prima fra tutte la legge n. 104 del 5 febbraio 1992 i cui principi generali per i diritti della persona con handicap sono definiti dall’art. 5, come la rimozione delle cause invalidanti, la promozione dell’autonomia e la realizzazione dell’integrazione sociale.
I principali destinatari della Legge 104 sono dunque i cittadini con handicap, ma non mancano riferimenti anche a chi li assiste, i cd. caregiver.
Il presupposto, infatti, è che l’autonomia e l’integrazione sociale si raggiungono garantendo l’adeguato sostegno sia alla persona con handicap che alla sua famiglia.
La legge n. 104 si occupa dell’assistenza, dell’integrazione sociale e dei diritti della persona con handicap; inoltre, prevede alcune importanti agevolazioni, come le agevolazioni lavorative, le agevolazioni per i genitori, le agevolazioni fiscali.
La legge n. 104 è stata modificata dalla Legge n. 53 dell’8 marzo 2000, dal D.Lgs. n. 151 del 26 marzo 2001, dall’art. 24 della legge n. 183 del 4 novembre 2010, dal decreto-legge n. 90 del 24 giugno 2014 e convertito in legge con modificazioni dalla legge n. 114 dell’11 agosto 2014 ed infine dal D.Lgs. n. 66 del 13 aprile 2017.
La legge n. 17 del 28 gennaio 1999 che, sul fronte del diritto allo studio delle persone disabili, impegna più intensamente e in maniera sistematica le Università Italiane nei confronti degli studenti universitari disabili, non solo nella direzione dell’abbattimento delle barriere alla mobilità e del riconoscimento di particolari agevolazioni contributive, ma anche in un diretto sostegno alla persona attraverso un insieme di azioni concrete destinate progressivamente ad arricchirsi e ad affinarsi.
Tale legge affida ad un docente delegato dal rettore, le funzioni concernenti l’integrazione dell’handicappato nell’ambito dell’ateneo, garantisce agli studenti universitari con disabilità sussidi tecnici e didattici specifici, nonché il supporto di appositi servizi di tutorato specializzato e consente, previa intesa con il docente della materia, il trattamento individualizzato per il superamento degli esami universitari (prove equipollenti).
Le leggi n. 15 del 15 gennaio 1991, l’art. 29 della legge n. 104 del 5 febbraio 1992 e la legge n. 17 del 5 febbraio 2003 che prevedono un serie di facilitazioni per l’esercizio del diritto di voto degli elettori con disabilità.
La legge n. 15 del 15 gennaio 1991 stabilisce, ad esempio, che gli elettori non deambulanti, se iscritti a votare presso un seggio elettorale non accessibile, possono esercitare il diritto di voto in un’altra sezione del Comune che sia allocata in una sede esente da barriere architettoniche e che abbia adeguate caratteristiche di accessibilità.
L’art. 29 della legge n. 104 del 5 febbraio 1992 dal titolo “Esercizio del diritto di voto”, conferma quanto previsto dalla legge precedente prevedendo che, in occasione di consultazioni elettorali, i comuni organizzano i servizi di trasporto pubblico in modo da facilitare agli elettori handicappati il raggiungimento del seggio elettorale. Inoltre, stabilisce che un accompagnatore di fiducia iscritto nelle liste elettorali segue in cabina i cittadini handicappati impossibilitati ad esercitare autonomamente il diritto di voto.
Infine, specificamente per i non vedenti, la legge n. 17 del 5 febbraio 2003 ha stabilito che l’elettore può recarsi alle urne per votare avvalendosi dell’assistenza di un qualsiasi cittadino iscritto alle liste elettorali.
In base a tale normativa il non vedente può ottenere l’annotazione permanente sulla sua tessera elettorale del diritto al voto assistito; a tal fine l’elettore affetto da grave infermità deve recarsi al Comune di iscrizione elettorale, esibendo il verbale di cecità della commissione sanitaria oppure il libretto nominativo di pensione rilasciato dall’INPS che in precedenza, veniva rilasciato dal Ministero dell’Interno.
La legge n. 67 del 1 marzo 2006 “Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni”, riprendendo le definizione dei concetti di discriminazione diretta e indiretta (v. supra), «promuove la piena attuazione del principio di parità di trattamento e delle pari opportunità nei confronti delle persone con disabilità di cui all’articolo 3 della legge n. 104 del 5 febbraio 1992, al fine di garantire alle stesse il pieno godimento dei loro diritti civili, politici, economici e sociali. Restano salve, nei casi di discriminazioni in pregiudizio delle persone con disabilità relative all’accesso al lavoro e sul lavoro, le disposizioni del D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, recante attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro» (art.1)
Un altro importante strumento per il contrasto alla discriminazione nei confronti dei disabili è l’art. 15 della legge n. 37 del 3 maggio 2019, emanata in attuazione del Trattato di Marrakech adottato all’interno dell’Unione Europea tra il 2017 e il 2018, che consente alle persone disabili e alle loro associazioni di realizzare testi in formati digitali, in linguaggio braille o in versione audio, per rimuovere gli ostacoli discriminatori all’accessso dei materiali culturali.
La discriminazione verso i disabili (l’abilismo) sul posto di lavoro
Spesso le persone con disabilità subiscono discriminazioni non solo per accedere al posto di lavoro, ma anche all’interno dello stesso.
Norme nazionali ed europee emanate per contrastare tale fenomeno:
Fonti nazionali
La legge n. 68 del 12 marzo 1999 che, tramite il principio del collocamento mirato, intende dare attuazione al principio costituzionale che vede nel lavoro uno strumento di realizzazione della persona.
Per collocamento mirato dei disabili si intende quella serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione.
Si è così introdotto un sistema che non vede nel disabile un soggetto avente diritto ad un posto in virtù di un intervento meramente assistenziale dello Stato, che sia volto ad addossare alle imprese la responsabilità finale della doverosa tutela di alcuni cittadini, ma che in un’ottica diversa individui nel disabile una risorsa per la stessa impresa assicurandogli nello stesso tempo una giusta collocazione all’interno dell’azienda.
La Direttiva n. 1 del 24 giugno 2019 con la quale il Ministro per la Pubblica Amministrazione ha definito, specificamente nell’ambito del pubblico impiego, le modalità applicative di coordinamento della disciplina vigente in materia di collocamento delle categorie protette di cui alla Legge n. 68 del 1999.
La finalità perseguita dalla Direttiva è quella di rendere più efficaci gli strumenti approntati dalla legge per i beneficiari del collocamento obbligatorio di cui alla Legge n. 68 del 1999.
La legge n. 68 del 1999 si applica sia al lavoro privato sia al lavoro pubblico mentre la Direttiva fornisce indicazioni unicamente per il datore di lavoro pubblico.
Fonti europee
La Carta dei diritti fondamentali dei cittadini europei del 7 dicembre 2000 il cui art. 26, stabilisce che l’Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità.
La Risoluzione 2020/2086, approvata dal Parlamento Europeo il 10 marzo 2021 sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro alla luce della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (UNCRPD), è stata emanata al fine di consentire anche alle persone disabili un accesso equo al mercato del lavoro, visto che solo il 50% di esse è occupato.
La discriminazione verso i disabili (l’abilismo) – gli accomodamenti ragionevoli
L’accomodamento ragionevole è uno strumento prezioso per consentire ad un lavoratore con disabilità, qualificato per una determinata posizione lavorativa, di superare lo svantaggio derivante dal suo stato di salute, dandogli l’opportunità di ambire al posto di lavoro e di svolgere l’attività lavorativa in condizioni di uguaglianza con gli altri lavoratori dipendenti.
L’assenza degli accomodamenti ragionevoli all’interno del luogo di lavoro costituisce una forma di discriminazione verso le persone con disabilità (v. supra).
Tali strumenti, sono previsti da norme internazionali, europee e nazionali.
Fonti internazionali
Art. 2 (v. supra), il c. 3 dell’art. 5 e Il punto i) dell’art. 27 della Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità del 2006.
Fonti europee
Artt. 17, 20 e 21 del preambolo della Direttiva 2000/78/CE, il paragrafo 1 dell’art. 3 e l’art. 5 della stessa Direttiva.
La Sentenza della Corte di Giustizia dell’ UE del 4 luglio 2013 (C-312/11) che ha condannato l’Italia a recepire l’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE imponendo “a tutti i datori di lavoro di prevedere soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili” nonché “misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento.»
L’Italia ha dato seguito alla Sentenza con il D.Lgs. 9 luglio 2003 n.216 che ha introdotto per i datori di lavoro pubblici e privati l’obbligo giuridico di adozione dei cd. accomodamenti ragionevoli sul luogo di lavoro dei disabili (art.3 c.3-bis).
La Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 15 luglio 2021 sulla parità di diritti dei lavoratori con disabilità, con la quale la Corte Europea ha ritenuto che la mancata previsione degli accomodamenti ragionevoli nel Regolamento dell’ Estonia costituisca una discriminazione verso la disabilità contraria, contraria alla Direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione.
La Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea n. 485 – C-485/20 del 10 febbraio 2022 che ha stabilito il Divieto di discriminazione basata sulla disabilità e l’obbligo di riassegnazione ad un altro posto di lavoro.
Fonti nazionali
Il D.Lgs. n. 151 del 14 settembre 2015 ha integrato la legge n. 68 del 1999 ed ha assegnato all’accomodamento ragionevole il ruolo di misura per colmare l’assenza di azioni dedicate all’integrazione lavorativa delle persone con disabilità.
Anche la Suprema Corte italiana si è pronunciata in tema di accomodamenti ragionevoli con importanti sentenze:
- La n. 6798 del 19 marzo 2018;
- La n. 27243 del 26 ottobre 2018;
- La n. 4869 del 23 febbraio 2021.
A titolo esemplificativo, la Suprema Corte ha configurato come ‘accomodamenti ragionevoli’ i provvedimenti e le soluzioni organizzative di seguito elencati:
- la sistemazione dei locali;
- l’adattamento degli strumenti di lavoro;
- un diverso disciplinamento dei ritmi di lavoro;
- una differente ripartizione delle mansioni;
- la riduzione dell’orario lavorativo.
La discriminazione verso i disabili (l’abilismo) – la tutela giurisdizionale
Qualora il datore di lavoro non vada incontro bonariamente alle esigenze del lavoratore con disabilità, quest’ultimo in caso di discriminazioni subite potrà ricorrere alla tutela giurisdizionale prevista dalle seguenti norme:
-L’art. 9 della Direttiva 2000/78/CE dal titolo “Difesa dei diritti” recita:
1. Gli Stati membri provvedono affinché tutte le persone che si ritengono lese, in seguito alla mancata applicazione nei loro confronti del principio della parità di trattamento, possano accedere, anche dopo la cessazione del rapporto che si lamenta affetto da discriminazione, a procedure giurisdizionali e/o amministrative, comprese, ove lo ritengono opportuno, le procedure di conciliazione finalizzate al rispetto degli obblighi derivanti dalla presente Direttiva.
2.Gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente Direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all’esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente Direttiva.
3. I paragrafi 1 e 2 lasciano impregiudicate le norme nazionali relative ai termini per la proposta di azioni relative al principio della parità di trattamento.
-gli artt. 4 , 4-bis e 5 del Dlgs. n. 216 del 9 luglio 2003;
– gli artt. 3 e 4 della legge n. 67 del 1 marzo 2006 alle persone con disabilità vittime di discriminazioni.
La discriminazione verso i disabili (l’abilismo) – l’accesso al Web
Di seguito le principali norme europee e nazionali che sono state emanate per garantire ai disabili pari opportunità di accesso al web:
- la legge n. 4 del 9 gennaio 2004 (legge Stanca) “Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici”;
- la Direttiva 2016 2102 del 26 ottobre 2016, sull’accessibilità ai siti Web e alle applicazioni mobili degli enti pubblici;
- il D.Lgs. n. 106 del 10 agosto 2018 sull’accessibilità dei siti web e delle applicazioni mobili degli enti pubblici, con il quale è stata attuata la Direttiva (UE) 20162102;
- l’Atto europeo sull’accessibilità (Direttiva 2019/882), approvato nel 2019 dal Parlamento Europeo con l’intento di migliorare la vita quotidiana di circa cento milioni di persone disabili e di anziani nell’UE, rendendo accessibili prodotti d’uso quotidiano e servizi importanti, come gli smartphone, i computer o gli e-book, le biglietterie automatiche e gli sportelli bancomat.
- il D.Lgs. n. 82 del 27 maggio 2022 sui requisiti di accessibilità dei prodotti e dei servizi, emanato per attuare la Direttiva (UE) 2019/882 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 aprile 2019.
Normativa
COSTITUZIONE:
– art 2
– art. 3
– art. 10
– art. 19
– art. 117, comma I
CODICE CIVILE:
– art. 10
– art. 2043
– art. 2087
CODICE DI PROCEDURA CIVILE:
– art. 163
– art. 410
– art. 702 bis
– art. 702 quater
– art. 737
– art. 738
– art. 739
CODICE PENALE:
– art. 3 bis
– art. 98
– art. 572
– art. 590
– art. 594
– art. 595
– art. 604 bis
– art. 604 ter
– art. 609 bis
– art 610
– art 612bis
– art. 660
LEGGI VARIE:
Legge n. 604/1966
Legge n. 300/1970 cd. Statuto dei Lavoratori
Legge n. 125/1991
Legge n. 205/1993 cd. Legge Mancino
D. Lgs. n. 286/1998 cd. Testo Unico dell’Immigrazione
– art. 43, commi 1, 2
– art. 44
D. Lgs n. 215/2003- art. 2- art. 3, comma 3 bis- art. 4
D. Lgs. n.216/2003
D. Lgs. n.198/2006 cd. Codice delle Pari Opportunità- art. 25- art. 26
D.L. n. 59/2008, convertito con Legge n. 101/2008
– art. 8-septies
D.Lgs. n. 5/2010
D. Lgs 150/11- art. 3
D.L. n.78/2013, convertito in legge n. 99/2013
D.Lgs n.151/2015 cd. Jobs Act- art. 1, comma 1, lettera d
Legge n. 103/2017 cd. Legge Orlando
D.Lgs n. 21/2018
Giurisprudenza
Cass., Sez. lav., n. 8248/2016
Cass., Sez. lav., n. 13693/2015
CGUE, Sez. IV, C-312/11
Tribunale di Bologna, Ordinanza del 18.06.2013
Tribunale di Bologna, Sentenza del 11.02.2013
Tribunale di Padova, Ordinanza del 04.08.2010
Cass., Sez. V- penale, n. 9381/2006
Caso “Multani”, Corte Suprema del Canada, 2006
Cass., Sez. V penale, n. 44295/2005
Civ. sez. I, n. 5360/2019;
Civ. sez. I, n. 781/2019;
Giudice di Pace di Milano, sent. n. 28959/2019
Civ., sez. VI, ord. 17.1.2017;
Civ., sez. VI, ord. 20.06.2016;
Tribunale di Torino, sez. I, ord. 2.4.2016;
Giudice di Pace di Genova, ordinanza del 25 Gennaio 2016;
Giudice di Pace di Palermo, ordinanza del 15 aprile 2016.
Civ., sez. VI, n.19201/ 2015;
Civ. sez. VI, ord. 2232-3.2.2014;
Civ., sez. lav., n. 23704/2013;
Pen., sez. IV, n.12741/2013;
Pen., sez. I,n. 949/2013;
Corte Cost., sentenza n. 202 del 2013;
Civ. sez. VI, n. 3694, 14.2.2013;
Civ., sez. VI, n. 3678/2012;
Cass sent. n 13219 del 16/06/2011;
Cass sent.n. 25150 del 02/07/2010;
Cass sent.n. 2612 del 04/02/2010;
Civ. sez. I, n. 4544, 24.2.2010;
Civ., sez. VI, n. 24170/2010;
Cass. Penale, sent. del 22 luglio 2019 n. 32862
Cassazione penale sez. IV, sent. n° 7104/2021
Cassazione penale sez. I, n° 11777/2021
Cassazione Sez. I Civ., sent. n. 15138/2015
Corte Cost., sent. n° 180/2017
Cass. Civ. sent. n. 3877/2020
Cassazione civile sez. I, n.29148/2020
Corte Cost., sentenza n. 278 del 2008
Cass sent.n. 24710 del 18/06/2008
Giurisprudenza europea:
Corte di giustizia UE, 7 giugno 2016, C-47/15.
Corte di giustizia UE, 18 dicembre 2014, C-562/13, Abdida;
Corte di giustizia UE , 28 aprile 2011, C.61/11, El Dridi.
Corte di giustizia UE, 30 novembre 2009, C-357/09.
Corte di giustizia UE, 27 maggio 2021, C-5671/16.
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Azione antidiscriminatoria ex art. 44 T.U. Immigrazione
L’azione civile verso un comportamento discriminatorio è un’azione cautelare, a cognizione sommaria, regolata dagli artt. 702 bis all’art. e ss c.p.c., che si svolge dinnanzi al Tribunale in composizione monocratica. Sono legittimati ad agire in giudizio tutti i soggetti direttamente o indirettamente colpiti dal comportamento, dall’atto o dal provvedimento discriminatorio e le associazioni che siano iscritte in un apposito registro tenuto presso l’UNAR, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziali.
L’azione antidiscriminatoria è esperibile sia verso un privato cittadino, ma sia anche verso la Pubblica Amministrazione, la quale adotti provvedimenti amministrativi discriminatori. La domanda può essere proposta personalmente dalla parte al Tribunale del domicilio del ricorrente e deve essere notificata 30 giorni prima della costituzione del ricorrente, mentre la costituzione va fatta 10 giorni prima dell’udienza. Il ricorso inoltre deve anche contenere le indicazioni previste dall’art. 163 c.p.c.
Bisogna specificare che nonostante l’azione antidiscriminatoria faccia riferimento agli artt. 702 bis e seguenti, essa non può utilizzare i commi 2, 3 dell’art. 702 ter (trasformazione del rito da sommario o ordinario, quando le difese delle parti richiedano una trattazione non sommaria): se la causa richiede una istruzione ampia, si dovrà procedere direttamente con un procedimento ordinario, a pena di improcedibilità del ricorso erroneamente iniziato ex art. 702 bis: l’art. 3 del D.Lgs n.150/11 stabilisce infatti che non si applica l’art. 702 ter c.p.c. commi 2, 3 alle controversie disciplinate al Capo III, fra le quali, appunto, l’azione antidiscriminatoria, che viene delineata come un’azione peculiare nell’ordinamento italiano.
Il giudice, omessa ogni formalità, procede nel modo che ritiene più opportuno e decide con ordinanza, per garantire la massima celerità e tempestività dell’intervento. Il ricorrente può dimostrare la discriminazione in via presuntiva anche attraverso dati statistici, ed elementi di fatto, purché essi siano gravi, precisi e concordanti. Se questo requisito è stato soddisfatto, l’onere della prova spetta al convenuto che dovrà dimostrare l’insussistenza della condotta discriminatoria ex art.4 comma 4 D.Lgs n. 216/2003 (quasi come se si sia formata una sorta di presunzione semplice a favore del ricorrente che lamenta di essere stato discriminato).
Il giudice a questo punto potrà:
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ordinare la cessazione della condotta, del comportamento, dell’atto discriminatorio e rimuoverne gli effetti qualora essi sussistessero;
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determinare un risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali;
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pubblicare la sentenza su un quotidiano locale, (si tratta di un rimedio facoltativo);
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in ambito lavorativo è previsto il rimedio della reintegrazione da licenziamento discriminatorio.
L’ordinanza è appellabile con reclamo alla Corte di Appello competente ex art. 702 quater c.p.c., ma se non viene impugnata entro 30 giorni l’ordinanza passa in giudicato. Si applicano in quanto compatibili gli art. 737, 738, 739 del codice di procedura civile.
Bisogna sottolineare che l’ordinanza che conclude il giudizio ex art.44 T.U. interviene nel momento i cui il danno non ha prodotto in toto i suoi effetti e l’azione può essere ricondotta al giusto percorso processuale. Questo è importante perché si vuole ottenere non un risarcimento per equivalente, attraverso questa azione, ma una vera e propria soddisfazione “in forma specifica”.
1. Cosa sono i CPR (ex CIE)
I CPR (ex CIE), i centri di permanenza per i rimpatri, sono strutture dove possono essere trattenuti in condizione di privazione della libertà personale i cittadini stranieri destinatari di un provvedimento espulsivo che debba essere eseguito, in caso di impedimenti temporanei all’ esecuzione immediata dell’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera.
Il questore dispone in questi casi il trattenimento dello straniero “per il tempo strettamente necessario” nel CPR più vicino. Entro 48 ore dall’adozione del provvedimento, il questore trasmette copia degli atti al giudice di pace territorialmente competente, affinché questi proceda nelle successive 48 ore a convalidarlo o meno. A tal fine il giudice fissa un’udienza per la quale lo straniero ha diritto all’assistenza legale: può designare un difensore di fiducia oppure farsi assistere da un avvocato d’ufficio, in ogni caso può avvalersi del gratuito patrocinio.
Se convalidato, il provvedimento comporta la permanenza nel CPR per un periodo di 30 giorni, che il giudice, su richiesta del questore, può prorogare di ulteriori 30 giorni “qualora l’accertamento dell’identità e della nazionalità ovvero l’acquisizione di documenti per il viaggio presenti gravi difficoltà”. Il questore può chiedere al giudice altre proroghe, alla cui richiesta si applicano le stesse garanzie previste per il procedimento di convalida della prima frazione temporale del trattenimento (Cass. Civ., sez. VI, n.12709/2016), ma il periodo massimo di trattenimento del CPR non può in ogni caso superare i 90 giorni (prima erano 180, dal decreto legge 130/2020 sono stati ridotti a 90gg., riallineandosi alla Direttiva Procedure e alla Direttiva Accoglienza dell’UE). Una deroga è prevista per gli ex-detenuti che hanno già trascorso in carcere il periodo di 90 giorni: in questo caso il trattenimento nel CPR può durare al massimo 30 giorni, termine tuttavia prorogabile di ulteriori 15 giorni “nei casi di particolare complessità delle procedure di identificazione e di organizzazione del rimpatrio” (art 14, co.5, T.U.I).
In base alla legge “lo straniero è trattenuto nel centro con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità” (art 14.2 T.U.I.). Tuttavia, la permanenza dello straniero nella struttura corrisponde di fatto ad una detenzione, venendo quest’ultimo privato della libertà personale.
Sin dalle prime pronunce in materia la Corte Costituzionale ha affermato che “il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea e assistenza è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione. (…) Si determina dunque nel caso del trattenimento, anche quando questo non sia disgiunto da una finalità di assistenza, quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale” (Corte Costituzionale, sent. 105/2001). Anche la Corte di Cassazione ha affermato che “il trattenimento costituisce una misura di privazione della libertà personale, legittimamente realizzabile soltanto in presenza delle condizioni giustificative previste dalla legge e secondo una modulazione dei tempi rigidamente predeterminata” (Cass., Sez. VI Civ., 18748/2015).
Le modalità del trattenimento nei C.P.R. sono poi disciplinate dall’art. 21 del Regolamento di attuazione, che di seguito si riporta: “1. Le modalità del trattenimento devono garantire, nel rispetto del regolare svolgimento della vita in comune, la libertà di colloquio all’interno del centro e con visitatori provenienti dall’esterno, in particolare con il difensore che assiste lo straniero, e con i ministri di culto, la libertà di corrispondenza, anche telefonica, ed i diritti fondamentali della persona, fermo restando l’assoluto divieto per lo straniero di allontanarsi dal centro”.
Nell’ambito del centro sono assicurati, oltre ai servizi occorrenti per il mantenimento e l’assistenza degli stranieri trattenuti o ospitati, i servizi sanitari essenziali, gli interventi di socializzazione e la libertà del culto, nei limiti previsti dalla Costituzione.
Allo scopo di assicurare la libertà di corrispondenza, anche telefonica, con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, sono definite le modalità per l’utilizzo dei servizi telefonici, telegrafici e postali, nonché i limiti di contribuzione alle spese da parte del centro.
Il trattenimento dello straniero può avvenire unicamente presso i centri di permanenza per i rimpatri individuati ai sensi dell’articolo 14, comma 1 del testo unico, o presso i luoghi di cura in cui lo stesso è ricoverato per urgenti necessità di soccorso sanitario.
Nel caso in cui lo straniero debba essere ricoverato in luogo di cura, debba recarsi nell’ufficio giudiziario per essere sentito dal giudice che procede, ovvero presso la competente rappresentanza diplomatica o consolare per espletare le procedure occorrenti al rilascio dei documenti occorrenti per il rimpatrio, il questore provvede all’accompagnamento a mezzo della forza pubblica.
Nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente residente in Italia, o per altri gravi motivi di carattere eccezionale, il giudice che procede, sentito il questore, può autorizzare lo straniero ad allontanarsi dal centro per il tempo strettamente necessario, informando il questore che ne dispone l’accompagnamento.
Oltre al personale addetto alla gestione dei centri e agli appartenenti alla forza pubblica, al giudice competente e all’autorità di pubblica sicurezza, ai centri possono accedere i familiari conviventi e il difensore delle persone trattenute o ospitate, i ministri di culto, il personale della rappresentanza diplomatica o consolare, e gli appartenenti ad enti, associazioni del volontariato e cooperative di solidarietà sociale, ammessi a svolgervi attività di assistenza a norma dell’articolo 22 ovvero sulla base di appositi progetti di collaborazione concordati con il prefetto della provincia in cui è istituito il centro.
Le disposizioni occorrenti per la regolare convivenza all’interno del centro, comprese le misure strettamente indispensabili per garantire l’incolumità delle persone, nonché quelle occorrenti per disciplinare le modalità di erogazione dei servizi predisposti per le esigenze fondamentali di cura, assistenza, promozione umana e sociale e le modalità di svolgimento delle visite, sono adottate dal prefetto, sentito il questore, in attuazione delle disposizioni recate nel decreto di costituzione del centro e delle direttive impartite dal Ministro dell’interno per assicurare la rispondenza delle modalità di trattenimento alle finalità di cui all’articolo 14, comma 2, del testo unico.
Il questore adotta ogni altro provvedimento e le misure occorrenti per la sicurezza e l’ordine pubblico nel centro, comprese quelle per l’identificazione delle persone e di sicurezza all’ingresso del centro, nonché quelle per impedire l’indebito allontanamento delle persone trattenute e per ripristinare la misura nel caso che questa venga violata. Il questore, anche a mezzo degli ufficiali di pubblica sicurezza, richiede la necessaria collaborazione da parte del gestore e del personale del centro che sono tenuti a fornirla”.
2. Protezione internazionale richiesta dai CPR
Lo straniero trattenuto nel CPR ha diritto di ricevere, a cura del gestore del centro, le informazioni sulla possibilità di richiedere protezione internazionale, tramite la consegna dell’opuscolo informativo previsto dall’art. 10, co.1, d.lgs. 25/2008 e di presentare la relativa domanda.
In caso di presentazione della domanda di protezione internazionale il richiedente asilo rimane trattenuto nel centro solo se destinatario di un decreto di espulsione amministrativa e se “vi sono fondati motivi per ritenere che la domanda di protezione è stata presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione dell’espulsione” (art. 6, co.3, d.l. 142/2015). Poiché non vi sono criteri oggettivi e soggettivi per definire una richiesta d’asilo come strumentale, la valutazione è rimessa al questore e può essere contestata dal richiedente in sede di udienza di convalida, per la quale è competente il Tribunale. La giurisprudenza ha inoltre sottolineato che la strumentalità della domanda di protezione non può essere decontestualizzata dalle emergenze dell’istruttoria, che presuppone l’audizione del trattenuto richiedente asilo (Trib. Di Torino, sez. civ. IX, ord. 03.02.2017 in asgi.it ).
3. Divieti di espulsione
Ci sono alcuni casi in cui il legislatore pone degli espliciti divieti di espellere un cittadino straniero dal nostro paese, in quanto la misura sarebbe eccessivamente discriminatoria e lesiva della sua condizione personale. Vediamo i principali.
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Divieto di Refoulment
L’espulsione non può essere disposta verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, sesso, lingua, cittadinanza, religione, opinioni politiche, condizioni personali o sociali oppure possa rischiare di essere rinviato in un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione (art 19 TUI). Questo divieto attua il principio di non refoulement sancito dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati.
Il divieto opera d’ufficio, cioè in modo automatico, per lo straniero richiedente asilo. Il diritto del richiedente asilo di rimanere nel territorio dello Stato durante l’esame della domanda di protezione internazionale è inoltre sancito dall’art. 7 del D.Lgs. 25/2008.
Dal decreto Lamorgese (d.l. 130/2020) il divieto non vale solo non solo verso paesi dove gli stranieri espulsi affronterebbero seriamente il rischio di tortura ma anche verso paesi dove rischierebbero trattamenti disumani e degradanti. In pratica si riduce la lista dei “paesi terzi sicuri”, considerando anche il rischio di violazione del diritto ad una vita privata e familiare (art. 3 CEDU).
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Divieti espliciti
Salvo che nelle ipotesi di espulsioni ministeriali per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, è anche vietata l’espulsione di (art. 19, co. 2, TUI):
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stranieri minori di diciotto anni, salvo il diritto di seguire il genitore o l’affidatario espulsi;
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titolari di permesso di soggiorno CE di lungo periodo;
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stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge di nazionalità italiana;
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donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono e mariti conviventi con esse.
La misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato ex art. 86 del d.P.R. n. 309/1990 può invece essere applicata anche a seguito di espiazione di pena conseguente a condanna per il reato di cui all’art. 73, comma 5 (produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope, anche se di lieve entità) dello stesso decreto (Cassazione penale sez. IV, sent. n° 7104/2021).
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Legami familiari e loro rilevanza
In base all’art. art. 13, co. 2 bis, nel decretare l’espulsione dello straniero che abbia esercitato “il diritto al ricongiungimento familiare o del familiare ricongiunto” deve tenersi conto “della natura ed effettività dei vincoli familiari dell’interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine”.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 202 del 18 luglio 2013 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, co. 5 nella parte in cui prevede che quest’ultima valutazione si applichi solo allo straniero che “ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare” o al “familiare ricongiunto” e non anche allo straniero “che abbia legami familiari nel territorio dello Stato”. Ne deriva che nel decretare l’espulsione dello straniero si debba seguire l’interpretazione data dalla Corte Costituzionale e dunque tenere conto dei legami familiari nel territorio dello Stato anche dello straniero che non abbia esercitato il diritto al ricongiungimento familiare (in tal senso si veda Cass. civ. sez. I, n. 781/2019).
Anche l’art. 5 della direttiva 2008/115 cd. “direttiva rimpatri” precisa che gli Stati membri debbano tenere “nella debita considerazione” la “vita familiare” e le “condizioni di salute” dello straniero, nonché l’“interesse superiore” dei bambini eventualmente coinvolti nel procedimento di espulsione.
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Reati connessi all’espulsione
Lo straniero che, senza giustificato motivo, non ottemperi entro sette giorni all’ordine di allontanamento disposto dal questore, commette un reato punito con:
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multa da 10.000 a 20.000 € in caso di respingimento o espulsione disposti con accompagnamento immediato (art. 13, co. 4, TUI) oppure se lo straniero si è sottratto ai programmi di rimpatrio assistito;
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multa da 6.000 a 15.000 € in caso di espulsione corredata dalla concessione di un termine per la partenza volontaria (art. 13, co.5, TUI).
Il reato connesso alle violazioni delle misure imposte nel caso di concessione del termine per la partenza volontaria e in alternativa al trattenimento è punito con multa da 3.000 a 18.000 € (art. 13, co. 5.2, TUI). Lo straniero espulso non può rientrare prima della scadenza del termine di divieto di reingresso indicato nel provvedimento espulsivo, se non con una speciale autorizzazione del Ministro dell’Interno. Il reato di reingresso illegale è punito con la reclusione da uno a quattro anni (art. 13, co.13, TUI) e accompagnamento alla frontiera.
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Giurisprudenza in materia di espulsioni
Riguardo alle espulsioni a titolo di misure di sicurezza la Cassazione con sentenza n.12741/2013 ha affermato che in caso di reati di spaccio di sostanze stupefacenti, la pericolosità sociale non può essere presunta ma il giudice ha il dovere di accertarla in concreto e, sulla base di questo accertamento, deliberare l’applicabilità o meno dell’ordine di espulsione. La verifica della pericolosità sociale era comunque già stata ribadita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 58/1995, in quanto tutte le espulsioni a titolo di misura di sicurezza disposte nei confronti degli stranieri rientrano nel sistema generale delle misure di sicurezza.
La pericolosità sociale viene rilevata dal giudice quando ritiene probabile che una persona possa commettere nuovi reati. Questa deve essere sempre valutata in concreto ed in base alla situazione attuale (Cassazione civile sez. I, n.29148/2020); tale giudizio è connesso ad alcuni indici previsti dal codice penale (artt. 133, 203, c.p):
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motivi a delinquere
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carattere del reo
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sussistenza di precedenti penali e giudiziari
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condotta contemporanea o susseguente al reato
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condizioni di vita individuale, familiare e sociale
Verso lo straniero che abbia ottenuto lo status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria è fermo il divieto di espulsione verso un Paese in cui non vede effettivamente tutelati i suoi diritti (art. 20 D. Lgs. n. 251/2007).
Le espulsioni a titolo di sanzione sostitutiva della pena sono state spesso utilizzate a titolo di sanzione sostitutiva della pena per il reato di ingresso o soggiorno illegale nel territorio dello Stato (art. 10 bis, T.U), ma con la sentenza n. 949/2013 la Cassazione ha giudicato che l’applicazione dell’espulsione in sostituzione della pena pecuniaria è subordinata al rispetto delle indicazioni contenute nell’art. 7 della direttiva rimpatri, cioè alla verifica in concreto del pericolo di fuga o della circostanza che l’interessato costituisca un pericolo per l’ordine pubblico. Inoltre, il giudice di sorveglianza, oltre alla verifica della insussistenza di una delle condizioni impeditive di cui all’art. 19 t.u. immigrazione, deve valutare anche la necessità riduzione della popolazione carceraria (allontanando i condannati non aventi titolo per soggiornare sul territorio nazionale) e le esigenze di tutela di incolumità, salute e loro relazioni familiari, in particolare in caso di figli minori conviventi, anche se non italiani (Cassazione penale sez. I, n° 11777/2021).
In tema di impugnazioni contro decreti di espulsione prefettizia si segnalano casi rilevanti in cui i ricorsi sono stati accolti già in primo grado davanti al Giudice di Pace:
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Il Giudice di Pace di Palermo con ordinanza del 15 aprile 2016 ha annullato un provvedimento di espulsione per difformità della traduzione in lingua francese del decreto prefettizio rispetto all’ originale in lingua italiana.
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Il Giudice di Pace di Genova con ordinanza del 25 Gennaio 2016 ha annullato il decreto opposto in quanto “alla luce dei principi richiamati dalla sent. n. 21799/10 Cass. SS.UU, l’allontanamento del padre costituirebbe un danno effettivo e grave per il figlio”.
Pagina a cura di
dott. Luca Sassi, sede di Padova
Enrico Barberis e Giulio Montalcini, sede di Genova
Bruno Andrea Mamone, sede di Varese