Mi dirigevo verso l’ora del tramonto su per le salite di un parco cittadino, il mio preferito, in pieno centro. Non era orario di servizio ed io desideravo solamente fare una passeggiata per fumare una sigaretta in pace, guardando il tramonto.
Dinanzi al Museo che il parco ospita da diversi decenni ormai, c’è una terrazza, le cui vedute sulla città conosco ed amo sin da quando ero un ragazzino. Non lontano da lì, infatti, scendendo giù per una mattonata, entravo nel portone della mia scuola ogni mattina alle otto in punto.
Questo parco, tanto meraviglioso quanto trascurato, offre alcuni degli scorci più belli della città: attimi di bellezza sconfinata, fra le magnolie ed i pini marittimi attraverso i quali si intravede la Lanterna ed uno spicchio di mare.
Un tempo la villa dava ospitalità ad autorità, vecchi capi di stato, celebri letterati, artisti e gente di ogni dove.
Poco distante, avevano dimorato, agli inizi del novecento, grandi filosofi tedeschi e poeti irlandesi.
Da molti anni ormai in questo piccolo polmone verde si rifugiano, oggi, insieme a qualche rado giovane concittadino, persone in difficoltà con il lavoro o con le droghe, alcuni senza dimora e, ora, un numero consistente di migranti africani.
Rimangono seduti ad ascoltare musica, farsi compagnia, prendere il sole, fumare, così facendo trascorrere le ore in attesa di far rientro nelle strutture di accoglienza cittadine.
Sono anime dormienti, i cui occhi sono fessure nei quali si riflette la luce accecante del sole.
Come accennavo prima, stavo percorrendo, da solo, la strada per giungere alla terrazza di cui parlavo, la vista mi si apriva di un colpo su tutto il centro storico e su una sagoma di un uomo seduto di spalle a me, con le gambe strette a cavalcioni su un muretto.
Senza curarmi troppo di lui – se non fosse che, visto che il sole stava per tramontare, avrei voluto scattargli una foto – mi sono seduto in disparte e ho acceso la desiderata sigaretta.
Dopo qualche minuto, l’uomo che io inizialmente avevo trascurato mi avrebbe chiesto da accendere ed io mi sarei seduto affianco a lui.
Altroché uomo. A vederlo bene, mi pareva più un coetaneo.
“Come mai conosci l’inglese?”, mi avrebbe chiesto in un inglese fluente ma difficilissimo da comprendere.
Io avrei esitato, incerto se renderlo edotto delle estati trascorse in Inghilterra, con l’aiuto economico dei miei genitori.
Così ho optato per una giustificazione un po’ laconica. Due verità, ma non le uniche.
“Ho lavorato per qualche mese in Inghilterra ed ho viaggiato molto”.
Stephen mi ha raccontato di provenire dal Senegal, di essere un rifugiato e di aver viaggiato negli ormai tristemente celebri “barconi”, dopo un lungo periodo di prigionia in Libia all’interno di uno di quei meno noti campi-prigione.
Era fuggito a causa delle minacce pervenute alla famiglia da parte di una tribù ribelle della sua zona. La famiglia era morta, in circostanze difficili da comprendere (Stephen, come molte persone africane, parlava un inglese differente da quello che si studia in una scuola di lingua britannica).
Si trovava in Italia da quasi due anni, dopo che gli era stato riconosciuto il permesso per motivi umanitari e rifiutata la protezione internazionale. Non trovava lavoro e aveva problemi con il rilascio di una non meglio identificata carta che gli avrebbe consentito di viaggiare per il Paese.
Mentre parlava, quel disgraziato di Stephen, io osservavo i suoi occhi gonfi. Ero incerto se fosse per il vino (vicino avevo intravisto un cartoccio di vinaccio del Carrefour), oppure per la disperazione che gli incurvava la schiena ed i tratti del volto.
Stephen, con ripetute boccate alla sua sigaretta, mi aveva fotografato la sua vita attuale con quattro semplici giri di parole:
“esco dal centro d’accoglienza alle sette ogni mattina; alle otto mi siedo su questo muretto, o su una panchina che trovo libera; attendo il calar della sera, ogni giorno, e poi faccio rientro al dormitorio”.
Ogni tanto mi sorrideva, mentre parlava, con una vena di tristezza riflessa nelle iridi:
“Sei una brava persona. Ti ho visto laggiù riflettere sulla vita, da solo, e mi sei sembrato uno psicologo”.
Mentre mi diceva queste parole io avevo l’impressione che Stephen non stesse affatto richiedendo un aiuto dalla mia persona e tantomeno avesse creduto che io fossi uno psicologo; Stephen, in realtà, dicendomi quelle parole, stava supplicando l’umanità tutta.
Il nostro incontro era durato appena quarantacinque minuti, al termine dei quali gli avevo lasciato un biglietto con i recapiti in inglese dello sportello genovese di Avvocato di strada.
Due volte gli ho ribadito, consegnandolo, prima di lasciarlo:
“vieni domani, è mercoledì, dalle 3 alle 5 del pomeriggio!”.
Stephen ha fatto sì con la testa, ma la sua espressione è parsa incerta.
L’indomani non si è presentato allo sportello ed io non ci ho potuto fare niente.

Giulio Montalcini

Volontario Servizio Civile Nazionale – Sede di Genova, Avvocato di strada Onlus