Al termine di questo anno trascorso allo sportello di Genova di Avvocato di strada mi pongo alcune domande.

La prima: “Sono una persona migliore?”

La seconda: “Sono riuscito ad essere d’aiuto?”

La terza: “hai fatto bene a farlo?”

Il gioco delle risposte è illusorio, quando si tratta di avvicinarsi ad esperienze così forti.

Per le poche risposte che ottieni, infatti, si genera una moltitudine di domande.

Capovolgendo l’ordine delle domande, ottengo, però, la risposta  più importante: “Ho fatto bene”. Il motivo è semplice: ho fatto una scelta in solitaria, al buio, senza suggerimenti, ma che sentivo in quel momento importante. Tanto basta, a mio avviso, per confermare che avendo fatto una scelta buona, posso dirmi una persona migliore.

Forse la domanda più difficile fra quelle sopraelencate è: “Sono riuscito ad essere d’aiuto?”. Se il percorso è transitorio come questo appena concluso, credo sia lecito domandarselo.

Ed ecco che il dato empirico cerca di venirmi in supporto: io e la mia collega abbiamo ricevuto circa una sessantina fra uomini e donne in un anno.

Ognuno di questi con una storia a sé, con un carattere a sé stante. Alcuni l’abbiamo persi di strada subito dopo (come c’era da aspettarsi), altri l’ho incontrati per la strada, sedendomi con loro a scambiare due chiacchiere.

Altri, ancora, mi telefonano ed se un giorno mi dicono: “Vi ringrazio per quello che state facendo”, altre volte insistono, pretendendo che Avvocato di strada sia la loro soluzione.

Qui vengono quelli che hanno provato mille altre volte e mille altre volte sono stati respinti: come dargli torto?

Le persone senza dimora mi erano state descritte come persone schive al contatto sociale, diffidenti nei confronti del tentativo di riemergere dalla strada. In parte avevano ragione, in parte, avevano torto.

Di tentativi ne fanno eccome, anche se, certo, con i loro mezzi. E non si può pretendere che i mezzi siano quelli di una persona come le altre.

In pratica, sono riuscito ad aiutare veramente solo il 15% delle persone che ho ricevuto. Perché?

La risposta è simile a quella di prima: anche i mezzi di Avvocato di strada sono quelli che sono.

Se entri qui devi conoscere tanto i tuoi limiti quanto quelli di chi hai di fronte.

Trattando dei limiti delle persone senza dimora, quello che sconvolge la “persona normale” sono i tempi di queste persone: dilatati, disordinati.

  1. Avvocato, vorrei chiedere il divorzio.
  2. Certo, signora, quando si è separata?
  3. 1980. Ah, no. Forse era l’81. Sì, tra 75 e 82
  4. Avvocato, lei crede davvero che riuscirò a stare in quella casa?
  5. Ci proviamo. Intanto lei si faccia forza!
  6. Sto buttando via tutto, tanto lo so che me ne dovrò andare. Uno come me non lo fanno stare lì”.
  7. Avvocato. Mio padre era un maresciallo. Io non sono razzista. Ho provato a dare una mano a tutti quelli che ho incontrato. Ma perché danno agli africani e agli omosessuali le case prima che a me, povera scema, che vivo qui a Genova da una vita?”
  8. Signora, non è vero. Forse gli africani sono più numerosi di noi, hanno più spesso dei minori appresso e il Comune deve tenerne conto. Signora, molte persone omosessuali finiscono in strada proprio per il fatto di essere omosessuali”.

Vorresti dire che non c’è differenza fra l’essere un africano senza dimora e un italiano senza dimora, come non c’è differenza fra un africano e un europeo comuni, ma ti trattieni, perché sai che ritrovarsi senza casa a casa propria è il peggiore dei destini.

Vorresti affermare con certezza che essere gay significa essere una persona come le altre, ma come fai a spiegarlo a chi non ha niente?

Insomma come fai ad essere d’aiuto in queste situazioni?

Te la prendi con la politica, o con gli stessi professionisti che non hanno fatto abbastanza. Capisci che a Roma qualcuno spinge ogni giorno per accentuare le differenze sociali, accendendo focolari di malcontento e dando impulso a meschine guerre fra chi non ha nulla.

Ma la prima persona con cui te la prendi sei tu medesimo.

Ti senti impreparato nell’affrontare la realtà di questa persone  perché, in fondo, sei un buon pensante, ben educato figlio di buona famiglia, completamente ignaro delle ingiustizie, costantemente arroccato e difeso dietro la tua posizione sociale.

Non basta possedere una coscienza sociale ed essere in grado di percepire un grado di disparità nel mondo per sentirti davvero alla pari con chi non ha nulla. È importante, certo, ma talvolta, ingannevole.

Ho compreso, infatti, che l’errore più grave, quando si tratta di essere d’aiuto alle persone senza dimora, è proprio quello di colpevolizzarti, tentando di porti in una posizione di parità: la persona, per sentirsi davvero rassicurata, ha bisogno di provare fiducia e di percepire la differenza. La fiducia si instaura se colui che parla percepisce di trovarsi di fronte a un professionista che lo rispetta, pur collocandosi in una diversa posizione sociale.

L’uguaglianza, così come intesa, è impossibile.

Come già aveva inteso Socrate duemilacinquecento anni fa, è il dialogo a renderci davvero uguali, sono le esperienze che, pur diverse ma sempre umane, ci accomunano.

L’ho compreso una mattina di luglio, mentre vestito in giacca e cravatta mi dirigevo in Tribunale per fare da interprete a un ragazzo nigeriano.

Camminavo svelto, quando, ad un tratto, ho incontrato un nostro utente, il sig. M., seduto a fumare su una panchina di Piazza Corvetto, la più aristocratica delle agorà cittadine.

Incrociando gli occhi con il sig. M. gli ho sorriso e mi sono seduto a parlare e fumare con lui, per una mezz’oretta circa.

Conoscevo la sua storia alla perfezione – una storia triste, ma lui è un uomo che non si dà certo per vinto. Mentre parlavamo, avevo capito che il sig. M. non provava imbarazzo a discutere con un giovane ben vestito, seduto nella piazza cittadina dei “ricchi”.

Aveva fiducia perché era stato ascoltato, prima di tutto, e poi perché era stato spronato e indirizzato a cercare una soluzione per uscire dalla sua condizione.

Nel preciso istante in cui ci siamo salutati, ho capito, per la prima volta, di essere stato d’aiuto proprio rimanendo la persona che sono sempre stata.

Ho capito, forse davvero per la prima volta, che il percorso dell’avvocatura – ancora, ahimè, non raggiunto – era il percorso giusto e che questo servizio di un anno mi rimarrà nel cuore per tutta la vita.

Ora ho terminato e sono triste.

Giulio Montalcini

Volontario Servizio Civile Nazionale Avvocato di strada Onlus

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