“Le persone non dicono sempre quello che gli passa per la mente. Una ragione è che non vogliono. […] L’altra è che non ne sono in grado. […] La differenza tra mancanza di volontà ed incapacità si sostanzia nella differenza tra il nascondere qualcosa di proposito a qualcuno ed il nasconderlo, senza saperlo, a sé stessi.”
(Project Implicit – Harvard University)

In psicologia viene definito come “implicit bias” o “bias cognitivo” il meccanismo tramite il quale la nostra mente, implicitamente, ci porta a prediligere o, dall’altra parte, ad avere un preconcetto negativo, nei confronti di un gruppo di persone con un tratto in comune, che può essere la loro religione, l’etnia, l’orientamento sessuale, il ceto sociale, ecc. Possiamo dire di avere un (pre)giudizio implicito nei confronti di qualcuno, quindi, quando sulla base delle informazioni in nostro possesso la nostra mente associa determinate caratteristiche alla persona in questione, e ciò ci rende inclini a trattarla favorevolmente o sfavorevolmente.
L’implicit bias è stata oggetto di numerosissime ricerche, tra cui forse la più famosa è stata quella condotta dall’Harvard University a partire dal 1988 e che ha portato allo sviluppo del “Project Implicit”. Uno dei tanti risultati ottenuti da Project Implicit è stata l’elaborazione di un test online, gratuito ed accessibile a tutti, tramite il quale vengono misurati l’attitudine e le convinzioni che una persona non vuole o non può riferire rispetto a diverse caratteristiche delle persone come la loro sessualità (omosessualità vs. eterosessualità), l’essere arabo e musulmano, il peso (peso normale vs. sovrappeso), il colore della pelle (chiaro vs. scuro), l’età (giovane vs. anziano), ecc.
Le preferenze implicite per cosiddetti “majority groups”, ad esempio le persone bianche oppure, nel nostro caso, le persone con una casa ed un determinato tenore di vita, sono molto comuni perché sono collegate a come la società ha dipinto, per decenni, i gruppi minoritari. Ad esempio, per moltissimi anni la società Americana ha discriminato gli afroamericani, associando a questi concetti negativi tramite anche l’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa. Lo stesso ragionamento può essere applicato alle persone senza dimora: quante volte ci capita di vedere l’espressione “senza fissa dimora” utilizzata in modo dispregiativo nelle notizie? Pensiamo ai numerosi esempi di “ordinanze antidegrado” o la neonata misura del daspo urbano: questi atti di autorità amministrative o giudiziarie sono finalizzati a punire le condotte tipiche di una persona che vive in strada, come l’elemosina o il costruirsi una dimora in strada. È anche tramite atti come questi che si diffonde nella cultura odierna un’idea negativa della persona senza dimora, che diventa un soggetto dedito alla criminalità e simbolo di “degrado”, concetto quest’ultimo intrinsecamente astratto e di difficile definizione. Le persone che vivono in strada sono, agli occhi di chi gli passa accanto tutti i giorni, invisibili ma, allo stesso tempo, sono le prime ad essere sotto i riflettori quando si tratta di rendere una città più pulita ed attraente agli occhi del mondo.
Informazioni di questo tipo, diffuse dai media, vengono assorbite dalle nostre menti e ci portano ad agire, implicitamente, in modo discriminatorio. Cosa fare quindi per evitare di avere un comportamento implicitamente penalizzante nei confronti di un determinato gruppo sociale? Come si fa ad eliminare, dalla nostra mente, la caratteristica di “senza dimora” quando ci rapportiamo con queste persone nella vita di tutti i giorni in modo da rendere la nostra condotta neutrale? L’immagine stereotipata della persona senza dimora è quella di una persona sporca, trasandata, con una scarsa igiene e cura del corpo. Quante volte quest’immagine corrisponde alle persone che vivono effettivamente in strada? Frasi tipiche di coloro che iniziano ad interfacciarsi con persone che vivono in strada sia in contesti lavorativi che di volontariato sono: “Non sembra proprio un barbone” “Sembra un signore così distinto” “Si cura molto per uno che vive per strada”. E quando capita di incontrare persone che corrispondono a questo stereotipo, quanto siamo influenzati dal loro aspetto esteriore?
Non esiste un’unica risposta o soluzione che possa portare una persona ad eliminare un determinato “bias cognitivo”. Sicuramente è possibile seguire alcune raccomandazioni: è sempre bene formarsi ed informarsi sulle persone che vivono in strada, evitando di esprimere giudizi superficiali ma è fondamentale soprattutto acquisire la consapevolezza che l’implicit bias è un processo cognitivo naturale e che il primo passo per affrontarlo è interrogarsi sempre sul proprio comportamento, quando si ha a che fare con persone senza dimora (o con persone appartenenti ad un altro gruppo sociale, che può essere di tipo etnico/religioso/identità di genere/orientamento sessuale) per cercare di capire se ci sono determinate associazioni mentali che facciamo “automaticamente” e chiedersi perché. E’ quello che cerco di fare io nella mia esperienza giornaliera di servizio civile presso l’associazione Avvocato di strada ONLUS e che spero di continuare a fare anche un domani in un contesto lavorativo.

Alice Giannini

Volontaria Servizio Civile Nazionale – Sede di Bologna, Avvocato di strada Onlus