Dicono che la prima volta non si scorda mai, chissà quale sarà il motivo poi. Forse perché non sai esattamente cosa ti succederà nel mentre, forse perché ti spaventa quello che ti lascerà dopo. Oppure perché senti di non essere pronto, di non esserti preparato abbastanza e quindi di rovinare tutto.
La mia prima volta allo sportello di Avvocato di strada è andata esattamente così. Mentalmente mi sentivo deciso, sicuro, pronto ad accogliere le persone che sarebbero venute a spogliarsi davanti a me delle loro debolezze e delle loro difficoltà. Ma mi sbagliavo.
La porta dell’accoglienza si apre e riceviamo il primo utente: H. Un bel signore, dal volto sorridente che accenna un saluto sollevando la mano e abbassa il capo quasi in segno di riverenza. Si siede, appoggia sulle gambe una borsa ripiena di fogli di carta e incomincia a tirare fuori, uno dopo l’altro, una quantità infinita di documenti. Notiamo che le mani le muove con difficoltà, le parole escono a fatica da una bocca apparentemente troppo pigra per aprirsi.
Parlando con H. capiamo che la sua disavventura ha un inizio recente: a seguito di un ictus ha perso parte della funzionalità del volto e dei movimenti; ma l’ictus si è portato via anche il suo lavoro e con lui anche il permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Ed ecco che, dopo mesi senza documenti né lavoro e con la strada come unica compagna, si rivolge a noi…a me!
Dopo aver cercato di fare ordine nelle carte e aver preso con lui le decisioni sui prossimi passi da seguire, rasserenato esce dallo sportello salutando con quel mezzo sorriso che ora ha tutto un altro significato. Maledizione H., non ero pronto a vederti oggi. Non ero pronto a rimanere segnato dalla tua storia. Tu non sei stato vittima di un sistema, di una burocrazia assurda, di una politica discriminatoria: tu sei stato colpito dall’imprevisto. Chi mai penserebbe che un imprevisto del genere possa portarti via tutto. Pensandoci e ripensandoci ti ho capito: ho capito quale è stato l’inghippo. Tu eri solo. Senza nessuno a prendersi cura di te, nessuno che ti aiutasse a sorreggerti in quella tua caduta. Non avevi una rete su cui cadere indenne, non avevi una spalla su cui piangere. E ora ti sei rivolto a noi. Ancora immerso in questi pensieri, la porta si riapre ed entra il secondo utente.
In cuor mio penso “dopo una storia così, cosa potrà mai accadere oggi?”.
Emi, rifugiato classe ’98. Età di mio fratello. Non parla italiano, ma è anche troppo timido o intimorito per parlare. I suoi 20 anni anagrafici non corrispondono ai suoi lineamenti, al suo volto da bambino in un corpo non troppo cresciuto; ma dal suo sguardo diresti che ne avrebbe molti di più. Uno sguardo di chi ne ha passate tante, forse troppe. Ci mostra i documenti: permesso di soggiorno valido per altri 5 anni. Frequenta una scuola di italiano. Probabilmente gli proporranno un tirocinio. Ma allora Emi, di cosa diavolo mai avrai bisogno? Sei “perfetto”.
Sono bastate 4 parole: “Voglio rivedere la mia mamma”. Sbam. Pugno dritto nello stomaco. Tutti i ragazzi ad un certo punto vogliono vedere la propria mamma, ma nei suoi occhi potevi leggere distintamente una richiesta diversa, molto più viscerale. In Emi rivedo mio fratello e ammiro questo ragazzo solo, a 20 anni, che dopo 4 anni trascorsi in viaggio e senza aver mai avuto un contatto con i genitori mantiene una compostezza che non si addice alla sua età. Il colloquio si conclude ponendogli di fronte una realtà brutale: se mai tornasse nel suo paese perderebbe il suo status di rifugiato e quindi si vanificherebbero tutti quei giorni di sofferenze trascorsi nel suo esodo.
Dopo altre due ore lo sportello finalmente finisce, riprendo la bici e torno a casa. Essendo nato nella stessa città dove ho studiato e attualmente lavoro, a casa c’è la mamma pronta ad accogliermi dietro la porta, mentre io accolgo il suo abbraccio crollando nel pianto. Quella prima volta non me la scorderò mai.
Da quella prima volta mi sono convinto ancora di più che non potevo e non posso essere disinteressato, perché se volto lo sguardo dall’altra parte non posso vedere le storie delle persone come H. ed Emi che solo chiedono di essere ascoltate.
E ascoltando le notizie e leggendo gli articoli, non riesco a non provare lo stesso sentimento del protagonista del libro “E l’eco rispose” di Khaled Hosseini: “Ma di fatto è infastidito dalla loro mancanza d’interesse, dalla spensierata ignoranza dell’arbitraria lotteria genetica che ha garantito loro una vita privilegiata”. Per tutti quelli come Emi ed H., noi ci interesseremo sempre.
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